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Facile dare per scontato la propria gioventù. Facile iscriversi alla facoltà di legge senza valutare la possibilità di trascorrere gli anni successivi a trangugiare assenzio e contemplare il fiume. Eppure si svegliava ogni giorno. A poco a poco finiva la vita. Essere studente e saltare la colazione. Avere dei sogni ed evitare gli specchi. Avere vent'anni e sentirsi Praga sulle spalle. Lasciare per un giorno l'appartamento che si era trovato a infestare non gli avrebbe certo concesso un'altra possibilità, non lo avrebbe reso una persona migliore. Eppure le gambe si alternavano svelte, le scarpe nere affondavano nelle pozzanghere fresche di quell'uggioso mattino di marzo. Si strinse nel cappotto, l'aria ancora densa di pioggia ormai penetrata nel feltro nero, le labbra pallide e screpolate. Non mancava molto al museo e la mostra doveva essere appena iniziata. Se si fosse svegliato con il presupposto che sarebbe stata quella mostra di quadri a cambiargli la vita, non sarebbe uscito, sfuggendo alla delusione. Ciò che lo muoveva era la semplice brama di esistenza, la stessa che lo aveva condotto a scegliere di abbandonare il proprio paese natale per quella città di chiese e castelli intrisi di storia. La voglia di gettarsi su qualsiasi distrazione e non pensare a sè. Sarebbe durato un'ora, un minuto, forse sarebbe giunto al museo e lo avrebbe trovato distrutto, ma almeno avrebbe potuto, per quel breve lasso di tempo, perdere la propria ombra, dimenticare il fiume, e l'assenzio, e gli esami arretrati. Raggiunse il museo respirando a fatica. Era proprio vero quello che aveva detto il medico, il suo corpo aveva un serio bisogno di nutrienti. Una volta uscito avrebbe comprato del latte e ne avrebbe bevuto un bicchiere. Forse si sarebbe ucciso. Lasciò l'ombrello nel vaso cilindrico accanto al portone, respirò per un ultimo istante la pioggia e la pietra. Passatosi nuovamente le mani sul cappotto, entrò. L'odore di disinfettante misto a vernice gli inebriò la mente nello stesso istante in cui andò a disfarsi il primo bottone del cappotto. Socchiuse gli occhi mentre il guardiano del guardaroba iniziò a illustrargli in inglese come funzionasse il deposito degli abiti. 《Parlo ceco, la ringrazio, fu la secca risposta. Non aveva alcuna ragione per essere scortese verso quell'uomo, poco più vecchio di lui. Erano lo stesso identico tipo di nessuno, le fondamenta della stessa città. Lasciò il cappotto nelle mani del guardiano e finse un momento di innocente dimenticanza nel lasciare il catalogo della mostra sul bancone. Non intendeva passare la mattinata inseguendo aspettative. Sarebbe stato soltanto deluso. Decise quindi di trascinarsi tra i quadri del tutto ignaro di ciò che gli potessero offrire, sperando di trovare distrazioni sufficienti per passare almeno mezza giornata lontano da se stesso. Sin dall'infanzia aveva sempre recato interesse in tutto ciò che potesse osservare, una curiosità malsana. Per questo troppo spesso si perdeva a fissare passanti per strada, finendo per ricevere occhiate maligne e minacce mal celate. Aveva bisogno di guardare, di sapere. C'era una ragione dietro a tutto questo? Una cosa era certa: era solo. Sarebbe stato solo a Praga come a Tokyo. Non gli mancava sua madre, alla cui costante pressione attribuiva la causa di quello stillicidio all'università. Stava pensando troppo a se stesso. Non aveva ragione per farlo. Era il momento di tornare anonimo, di toccare le vite immobili di quei falsi immortali che lo circondavano, terreno reso idolo. Nessuno di quegli artisti aveva trasceso la propria umanità. Eppure gli autori dei libri di storia si dilettano da decenni a dipingere eternità, abusando del termine sperando di alterare la realtà. La gente finisce per sognare l'impossibile, sognare l'immortale. Riconobbe nove artisti che aveva studiato. Quattro erano morti suicidi. Erano tutti soli, in quella stanza. Tutti anonimi, tutti ancorati a bugie di grandezza appese a pareti che un giorno sarebbero crollate. Un giorno sarebbe finito tutto. Si portò entrambe le mani alla testa e liberò da un nodo i ricci neri. Nonostante la pioggia e l'umidità avevano mantenuto volume. Lasciò che qualche capello cadesse a terra. Le gambe lo condussero lente verso la fine della stanza, verso il quadro che più di tutti destò la sua attenzione. La macabra immagine che abitava la tela era stata a lungo impressa nella sua mente, un vago ricordo dell'adolescenza, che appariva ormai così lontana. "Il tempo divora i suoi figli". Così era, e così sarebbe sempre stato. Orfani attendiamo che l'alternarsi dei giorni si spezzi, l'ultimo stento dei nostri occhi morenti volto a riconoscere il padre giunto a dilaniarci. E solo allora appare chiara la menzogna della nostra infanzia di orfanilità: non siamo altro che errori di un genitore egoista. E subentra la collera nell'incontrarlo, dopo l'asilo di un fascio di anni di illusione trascorsi a credersi figli del nulla, esenti da fine. Ma il tempo resta, memore e sprezzante, e impone il suo essere padre coi denti, mordendo carni che invecchiano. Prese posto alla destra del quadro, gli occhi nell'olio secco.
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Utente Anonimo
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