La compagnia fastidiosa del mio alter ego mi scorta lungo la strada che scende al porto. Forse la vista del mare riuscirà a calmarmi. Guardo l’orologio come per assicurarmi che il tempo esista ancora. Ecco, siamo quasi arrivati. Mi sforzo di dimenticare l’insoddisfazione da cui, lo so, non esiste l’antidoto.
Il porto è una caletta riparata da un molo di massi. L’ansa che si spegne su una spiaggetta accoglie barche di pescatori. Ci fermiamo sulla banchina laterale dove sono ancorate alcune barche a vela. Saranno turisti del nord con i capelli biondi e la pelle arrossata da un sole cui non sono abituati.
Marta si dirige verso un bar-trattoria, un bugigattolo al piano strada di una vecchia casa addossata a una torre sulla punta del porticciolo: un antico faro o una postazione d’avvistamento contro i pirati?
«Dai Franco, vieni.»
Incrociamo tre uomini che si dirigono verso il veliero più grande. Il più giovane, un ragazzo segaligno, porta delle scatole di pizza d’asporto. Gli altri due, visibilmente più anziani, hanno delle borse della spesa con il logo di un supermercato. Attraverso la plastica semitrasparente s’intravedono lattine di birra. Hanno l’aspetto di vichinghi. Quando arrivano alla barca, da sottocoperta sbucano due donne, anch’esse dai tratti stranieri.
«C’è la bandiera neozelandese,» esclama Marta, «dalla Sicilia il viaggio è lungo!»
«Non è detto che vengano da lì. La nazionalità dell’equipaggio non corrisponde necessariamente alla bandiera dell’imbarcazione.»
Appena seduti, ci accoglie una ragazza con un grembiule nero. Ha i capelli legati in una coda di cavallo. È graziosa, anche se con le sopracciglia troppo folte e un’ombra di peluria là dove gli uomini si fanno crescere le basette.
«Volete mangiare qualcosa?»
Marta mi guarda con aria interrogativa e mi lancia: «Piuttosto un aperitivo.»
«Allora dovete provare la specialità della casa: il cocktail della felicità!»
«D’accordo. Due, grazie», sentenzia mia moglie senza neanche chiedere il mio parere.
«Siete sposati?» Chiede la cameriera.
«Sì», rispondo un po’ seccato, «ma questo cos’ha a che fare con la nostra ordinazione?»
«Vi porto anche degli arancini,» continua compiaciuta, «li facciamo noi.»
Si dilegua sculettando e noi rimaniamo in attesa della comanda tra il tintinnio delle corde che sbattono contro gli alberi metallici dei velieri.
«Devi sempre essere così scorbutico?»
«No, ma scusa, che diavolo gliene può fregare di sapere se siamo sposati o no?»
«È stata gentile, non voleva offendere.»
«Gentile, ma invadente!»
«Sarà la mentalità siciliana. Oppure ci ha scambiato per due sposini.»
«Alla nostra età? Si vede che non siamo due ragazzi.»
«Che vuol dire? Lo sai quanti si risposano in età matura, magari dopo il fallimento del primo matrimonio?»
«Il tuo, sembra un messaggio più o meno subliminale…»
Rido in modo stupido e mi pento subito d’aver detto quelle parole.
«Vabbè, oggi sei di cattivo umore. Domani guido io, così tu scrivi il tuo libro e non mi rompi le scatole. Io non riesco a leggere, quando guidi tu mi viene da vomitare.»
Questa volta il mio sesto senso, una cosa che non credo essere una manifestazione soprannaturale, ma neanche una caratteristica antinaturale, non mi è venuto in soccorso. Devo imparare a stare zitto! Anche se, quando lo faccio, non riesco a sfuggire alle investigazioni di Marta sulle ragioni del mio mutismo. Insomma, se taccio non va bene e se parlo combino guai.
Come la maggior parte della gente, mi comporto in modo stupido con notevole frequenza. Condivido con la massa la tendenza a credere che se qualcosa di buono succede una volta, senza dubbio, per caso e indipendentemente dalla mia volontà, allora deve accadere di nuovo. O perlomeno questa ripetizione compiacente dev’essere propiziata dallo scorrere degli eventi. Purtroppo, vale più spesso per gli inconvenienti. La ripetizione è un vizio, non un dono.
Il tramonto arriva con bruciature nel cielo. Sono immerso in una cornice idilliaca, con la donna che amo, senza obblighi né urgenze. Eppure ho l’impressione di non provare più niente, d’essere gettato in mezzo alle cose senza alcuno scopo. Mi succede sempre più spesso. E questo ha a che fare più con un arresto involontario della motilità mentale, una sorta di torpore, che con la mia età. Così almeno mi piace pensare. Invecchio? Non so, forse sono già oltre, allo stadio in cui il frutto inizia a corrompersi.
Sogno, non sogno, mi dissolvo in questa penombra isolana. Guardo, non guardo. Niente ha più importanza. Ci sono macchie sul muro esterno del bar e nel cielo: si assomigliano. Nulla mi tocca più, tranne la brezza marina. Il sale s’incrosta sulle case del villaggio e nei capelli di Marta. Assenza. La ruota del giorno gira nostro malgrado. Il mio criceto interiore è fuggito. Volano foglie. Strano, non vedo alberi. Qualcuno porterà fiori sulla mia tomba? Che cazzo di domanda!
«Ecco qua!»
La pettegola arriva con due bicchieri e un piatto contenente quattro arancini. Il solito trucco dei baristi: dar da mangiare agli avventori per incitarli a bere. Il servizio è diligente ed efficace.
Leviamo i bicchieri per un brindisi. Il verde delle foglie di menta, schiacciate sul fondo, contrasta con il rosso brillante del liquido, simile alla granatina. Beviamo.
«È dolce!»
La mia constatazione non la sorprende.
«Pensavi forse che la felicità fosse amara?»
«Potrebbe esserlo. Però è gradevole.»
«Va bene così, smettila di rimuginare.»
Non ci riesco, è più forte di me. Mi chiedo se la vecchiaia, la regione verso la quale Marta ed io ci stiamo incamminando, consista in un’insospettata sovrabbondanza di tempo. Dubito d’essere mai appartenuto a questa condizione. Molti dei miei cosiddetti amici erano già vecchi prima ancora che l’età anagrafica certificasse la loro appartenenza alla categoria degli anziani. Io vi sto sfociando come un torrente che fatalmente arriva al mare. E sono fortunato perché la maggior parte dei rigagnoli si perde o si rinsecchisce prima ancora di giungere alla meta. Un mare noioso nella sua calma, che nessuno sospetterebbe ancora capace d’onde anomale.
Quando non perdono la memoria, i vecchi si dedicano a ricomporre parti scelte della loro vita, come un autore che rispolveri un racconto scritto in gioventù e, mettendovi mano, lo trasfiguri in una cronaca completamente diversa da ciò che l’aveva originato. L’azione cede il passo ai tempi morti, il troppo pieno d’emozioni e di slanci a vuoti senza spiegazione. Un po’ come si fa quando si ritrova una scatola di vecchie fotografie in cantina: la coppia di giovani sposi che fruga nelle cose dei vecchi, magari per un’eredità imprevista, s’interroga sull’identità di quella o di quell’altra figura, si meraviglia, tenta di ricucire, chiede lumi ai sopravvissuti che ancora ricordano. I giovani sono conservatori: mummificano l’eccesso senza comprenderlo.