I vecchi, invece, quando ancora hanno la forza e la voglia d’affrontare il loro passato, selezionano, tagliano, scartano e preservano solo alcune deliberate immagini, trasformano il ricordo in una creazione della loro immaginazione. Un calcolo drammaturgico che riduce la storia all’essenziale, nello sforzo d’approfittare, ancora per un po’, di ciò che rimane di esso. Riscrivono i fatti in un modo più preciso, ma non per questo più veritiero. Certo, il risultato è più confortante del caso che li sta precipitando verso la dimensione cui tentano di sfuggire.
La signorina ritorna con due fogli plastificati e li appoggia sul tavolo.
«Che cos’è?» Chiede incuriosita mia moglie.
«Ah, la felicità si deve scegliere. Ognuno decida la sua!»
Do una rapida scorsa. Una lista di parole con relative spiegazioni. Sembra un menu, un elenco di piatti con la traduzione e senza il prezzo. Sì, non ha torto, c’è solo l’imbarazzo della scelta. Mi chiedo, però, chi servirà la portata selezionata. Bevo un sorso e incomincio a leggere.
Chrysalism: amniotica tranquillità di essere in casa durante la tempesta.
Quale felicità può provare una crisalide protetta dal suo involucro di seta, senza un gesto, senza un movimento che non sia interiore e quindi inutile? Il mio animaletto segreto mi suggerisce l’immagine di quei malati terminali il cui unico piacere è quello di non provare dolore. Accuditi nel mangiare e nel defecare, perdono l’adesione con il mondo esterno e sgusciano, senza protestare, verso quello stato fetale preservato dalla memoria del corpo, fino a un sonno che non viene soltanto con le palpebre chiuse.
«Senti questa!»
Marta mi strappa dai miei pensieri cupi.
«Załatwíc. È polacco. Significa risolvere una situazione e sistemare le cose arrangiandosi.»
Io le rispondo: «Assomiglia all’hindi Jugaad: trovare soluzioni innovative, improvvisate e geniali, utilizzando quello che si ha.
«Può darsi, ma a me non sembra la stessa cosa.»
«Comunque questa non è felicità, è soddisfazione. È il mio bricolage, quando aggiusto qualcosa con quello che trovo in cantina, senza andare a comprare niente. Oppure è la tua cucina, quando rielabori, per così dire, una ricetta che hai letto su internet e ne tiri fuori qualcosa di buono anche senza gli ingredienti adatti.»
«Però mangi anche tu, e sei contento.»
«Contento non significa felice.»
«Allora dimmelo tu, sapientone, che cos’è essere felice.»
«Se cerchi sul dizionario, troverai solo dei sinonimi, ovvero delle definizioni approssimative: dallo stato di chi è senza preoccupazioni, al conseguimento del piacere immediato. Dall’ideale di perfezione individuale, alla beatitudine quale premio della virtù. Parole che non dicono niente. Sono solo descrizioni. Non facciamo altro che descrivere, convinti di sapere.»
«Quanto sei noioso quando fai il professore.»
«E tu sei ingenua. Ti appassioni alla prima cosa che ti capita sotto mano.»
«E questa allora? Balikwas, in filippino: saltare improvvisamente in un’altra situazione e sentirsi sorpreso.»
«Queste sono le nostre figlie quando erano bambine. Me l’hai ricordato tu proprio oggi quel famoso viaggio in Spagna! La felicità è gioia? Sì, ma non proprio. Non in modo definitivo. Vorrebbe dire che si è felici solo da bambini.»
«Insomma, non ce n’è una che ti piaccia tra tutte queste parole?»
Marta ha la molesta capacità di punzecchiarmi come una zanzara che, non paga della prima puntura, sibila ancora nelle orecchie alla ricerca d’un altro punto sensibile su cui infierire.
I naviganti nordici, stravaccati sul ponte della loro barca a vela, hanno fatto man bassa delle pizze. Tracannano una birra dopo l’altra bevendo direttamente dalle lattine. C’è una bella atmosfera. Ridono rilassati con quei modi informali che tanto ci imbarazzano in pubblico, noi civilizzati italici. A un certo punto, il più anziano intona una canzone e immediatamente tutti gli vanno dietro. Riconosco Mary had a little lamb, una vecchia canzone popolare americana: parla di una ragazzina di nome Mary Sawyer che porta un agnello alla scuola. La cosa piace ai bambini suoi compagni, ma non tanto al professore il quale non comprende l’amore del piccolo animale per la sua padroncina.
Si risvegliano in me ricordi seppelliti nell’adolescenza, i cori del gruppo Scout e quelli in chiesa. Non so se sarei ancora capace di cantare insieme ad altri. Sono sicuro che mi sentirei ridicolo Questi uomini e queste donne, invece, condividono il piacere di stare insieme, accomunati dal pretesto di una canzone infantile. Si guardano vicendevolmente, muovono la testa al ritmo delle strofe, alzano il mento, prendono fiato e profondono nel canto il loro senso d’essere in comunione con le persone che amano. E, per estensione, con il mondo. È questa la felicità? Il timbro delle loro voci aumenta in un’umile e orgogliosa pienezza. Una grazia! Ma no, il termine è al limite della presunzione. Piuttosto una dolcezza pungente, giubilante. Si tengono per mano con la voce. Ecco, non saprei dire meglio.
Forse è l’Hygge, la parola danese che campeggia a metà del mio foglio lucido. La definizione recita senso di calore, atmosfera accogliente e amichevole.
Oppure è Kanyirninpa, l’abbraccio protettivo e salutare dei Pintupi, un popolo australiano che abita nel Deserto di Gibson. Ovvio, nel deserto bisogna proteggersi l’un l’altro. La famiglia con il nuovo nato, gli anziani con i giovani uomini che entrano nell’età adulta. La felicità come sopravvivenza?
Questo assurdo contenitore di sfumature sembra l’elenco degli ingredienti di un cocktail che necessiterebbe, però, della mano sapiente di un barista.
In che strano bar sono capitato? In quale dimensione parallela sono piombato? In un altro momento avrei mandato a quel paese la cameriera intrigante e sarei scappato a gambe levate da questo posto che allude ai figli dei fiori. La prima impressione mi ha giocato un tiro mancino, oppure sono io che non le ho dato retta?
Tutto è calmo e piacevole. Ogni cosa sembra aver scelto il suo posto per riposarsi in attesa di… Non so dire.
Aspetto. E che cosa potrei fare di diverso se non aspettare, qui, l’improbabile?
«Queesting, in olandese,» continua Marta, «accogliere l’amante nel proprio letto per chiacchierare.»
«Beh, non abbiamo mai smesso di farlo, non trovi?»
Lei posa il foglio e si fa più seria.
«Dimmi un po’: ma tu sei felice?»
Un allarme mi scatta nella testa. Questo è il classico tipo di domande trabocchetto. So in anticipo che, qualunque cosa io risponda, lei troverà un appiglio per mettermi all’angolo.