«Intendi se sono felice con te? Dopo tutti questi anni insieme non penso che tu abbia bisogno di conferme.»
«Forse mi fa solo piacere sentirmelo dire.»
«Da un marito o da un amante?»
«Sai benissimo che per me sei le due cose insieme. Allora?»
«Se non fossi felice con te, sarei con un’altra. E la cameriera avrebbe ragione a chiedere se siamo sposati.»
«Nessun’altra ti sopporterebbe. Saresti solo e di sicuro non saresti qui.»
Prendo tempo addentando un arancino. I bicchieri sono quasi vuoti.
«Ne ordiniamo un altro?»
Lei annuisce. Decide di non addentrarsi oltre nel bosco delle parole. Ci si potrebbe perdere e magari incontrare un lupo.
La tenerezza arriva quando cadono le parole, quando i gesti non sono ancora un disegno finito ma uno schizzo che la volontà non ha ponderato, né la mano affinato. Sbuca da dietro un sorriso, quando ci si alza da tavola e si mette su il caffè. Un tempo trattenuto da mani incerte. In coreano sarebbe Nunchi, la capacità di interpretare gli sguardi e di leggere le emozioni altrui.
Se io sono miope, la tua vista, amore mio, è più acuta di quella d’un animale selvatico. O più laterale. Forse la felicità consiste nell’essere sensibili, ma allora è anche una maledizione.
Le nuvole all’orizzonte hanno il colore della seconda dose di filtro magico che la cameriera dispone sul tavolino. Tutto è così semplice, così evidente e insieme così opaco: il mare, il tramonto imminente, il tuo viso che conosco così bene e che si sfuma in controluce. Sogno, non sogno. Il mondo mi sembra talmente nudo che provo quasi pudore a guardarlo. Un refolo di vento spinge odori d’altri mari e d’altre terre, d’altre notti e d’altri sogni, mentre tutto sembra sciogliersi davanti a me, il porto, i cantori naviganti… Le parole dondolano ormai sulle onde.
Marta allunga la mano e prende la mia. Il suo tocco è caldo. Lo conosco bene.
Lascia, lascia mi dicono le sue dita.
Si sporge sul tavolino. I suoi occhi sono bellissimi.
«Ehi, sei ancora con me? Guarda che io ci sono. Sono qui. Sono vera, non uno dei tuoi personaggi.»