Mi faccio largo tra la folla, cammino a fatica e cerco un posto. Ne scorgo uno alla mia destra, in ultima fila. “Bene, -penso- così potrò appoggiare la schiena…”.
Salgo la scalinata attenta a non calpestare le mani di qualcuno, arranco tra piedi, maglioni e le mille persone dal volto invisibile che popolano il palazzetto.
Probabilmente ne conosco qualcuna, ma vedo e non guardo. Il mio sguardo va oltre: all’unico posto libero.
I figli sono seduti qualche fila più in basso emozionati e felici di essere qui per supportare la loro squadra preferita. Le loro voci si mescolano all’eco di parole infinite che percorre come un tam tam tutto il campus.
Con un cenno della mano, ricambio il saluto di qualche conoscente.
All’improvviso sento, anzi percepisco, uno sguardo su di me.
Come un radar, giro la testa e vedo mia figlia che mi sorride e mi urla: “ Sei comoda?”. Rispondo con un cenno affermativo della testa e le mando un bacio con la mano…
Nell’attimo in cui penso che il mio bacio sia arrivato a destinazione, una mano si interpone nella traiettoria tra me e mia figlia. Il bacio si frantuma e viene raccolto da quella mano.
Sorrido a mia figlia e osservo l’ostacolo. Non riesco a vedere nient’altro, solo la mano ancora alzata come quella di un bambino che a scuola aspetta il suo turno per poter parlare. Il corpo a cui appartiene è nascosto dietro la schiena di un ragazzo che anche da seduto sembra essere altissimo.
Un flash… Un déjà vu...
Conosco quella mano. E’ da più di vent’anni che non la vedo. Non mi serve spostare la testa per appurare a chi appartiene. Io so di chi è…
E’ la mano del mio passato, la mano alla quale per la prima volta mi sono aggrappata nella tempesta d’amore che mi aveva colpito quando ero adolescente.
Anche allora come adesso, il mio sguardo si era posato subito sulla sua mano: grande, ben curata, le dita leggermente nodose, non troppo lunghe, le unghie ben tagliate, il palmo chiaro mentre il dorso, poco peloso, ambrato. La pelle, oggi, è appena un po’ più rugosa.
Anche allora, come oggi, la prima cosa che avevo notato di lui, era stata la sua mano due file avanti a me sul treno che ci portava a scuola. L’aveva alzata per chiamare l’amico a cui aveva tenuto il posto.
Ho sempre dato molta importanza alle mani delle persone: basta saperle leggere e ti danno tante informazioni.
Quando conosco qualcuno, per educazione lo guardo in faccia, ma non mi soffermo, non focalizzo particolari, aspetto di seguire con lo sguardo il momento in cui le mani inevitabilmente entrano nella mia orbita oculare e inizio a giocare con il pensiero…
Già allora era una mano gentile, ben proporzionata, le unghie larghe e il dorso dorato. Questi input, mi rimandavano l’idea di un ragazzo moro o castano scuro, di altezza media con muscolatura proporzionata. Ma ciò che allora, come oggi, mi aveva colpito erano le vene in rilievo: mi davano la sensazione che il proprietario avesse una forza notevole, non solo fisica. Una forza interiore che gli avrebbe permesso di andare dove voleva e di scavalcare mare e monti pur di ottenere qualcosa.
Credo di essermi innamorata prima delle sue mani e poi di lui. E lui era proprio come l’avevo immaginato io, osservandogli le mani.
Il caso aveva voluto che l’amico al quale aveva tenuto il posto, fosse un mio compagno di classe. Forte di questa casualità e forte delle sensazioni così positive che avevo sentito scrutando la sua mano, mi sono alzata per appurare come il mio ritratto mentale si sarebbe trasformato sulla tela della realtà.
Non avevo sbagliato: carnagione olivastra, capelli corti alla marines castano scuro, l’ovale perfetto racchiudeva due perle grigio verdi che sorridevano da sole, le labbra rosse ben delineate incorniciavano una dentatura perfetta e, come ciliegina sulla torta, le fossette tirabaci che mi hanno sempre fatto impazzire. Da seduto sembrava più basso, ma arrivava tranquillamente al metro e novanta. Il sorriso era di quelli che ti scaldano il cuore anche al Polo.
Ho memorizzato i fotogrammi dell’incontro delle nostre mani durante la presentazione di rito. Due calamite che si sono sentite attirate da una forza invisibile; polo più e polo meno, e la mia mano stretta nella sua, si è sentita subito a casa. La scossa emotiva che ho provato all’istante, mi ha fatto capire che quella mano sarebbe stata molto importante nella mia vita.
Per lui è stato amore a prima vista. Cupido aveva scagliato la sua freccia e aveva fatto centro: innamorato pazzo di me, quasi stregato.
Spesso, ridendo, mi diceva che le fate buone gli avevano somministrato un filtro d’amore nel latte quella mattina, e a questo proposito mi chiamava Fairy.
Mi sono lasciata trascinare da tanto amore; mi inebriavo di lui, del suo profumo, della sua pelle, del tocco delle sue mani su di me.
Le sue mani erano la mia àncora, la mia casa, la mia aria…
Quando mi prendeva il viso tra le mani, mi sentivo avvolta dal calore del suo amore, dalla forza di protezione che emanavano. E come un collo di pelliccia di visone ti ripara dal gelo, lui mi proteggeva dal gelo della vita. Per me voleva solo il fuoco dell’amore.
Conoscevo ogni sua falange, ogni linea della vita, dell’amore, della morte, del successo, ogni piccolo callo, “regalo” che le racchette da tennis continuavano a lasciargli ( era quasi un professionista )… Baciavo la piccola quasi invisibile cicatrice sul polpastrello dell’indice destro, che si era procurato aprendo una scatola di latta di palline da tennis quando aveva dodici anni.
La mia mano nella sua, la sua nella mia in un intreccio inebriante d’amore…
Il mio intuito non aveva sbagliato: era una persona speciale, gentile, tenero amante e tenero amico.