Caro Marco,
non verrò questo pomeriggio, sabato 26 marzo 2016 alle ore 18, all’inaugurazione della tua mostra “Solitudine e riverbero”, presso la Galleria Mandelli in Via dei Giubbonari 14 a Roma.
Non prenderò ancora una volta la macchina per venire all’ennesimo vernissage fatto di gente vestita accuratamente disordinato, aromatizzata all’ultima essenza giapponese e impegnata a rimestare nel bicchiere l’ultimo vino di tendenza.
Non credo proprio che affronterò il traffico romano nell’ora di punta con la mia Fiat Panda, per impazzire poi a cercare parcheggio nei pressi di quella cazzo di Galleria Mandelli, che, come tutte le gallerie di tendenza, si trova in un posto dove si può arrivare solo in taxi. E neanche prenderò in considerazione la possibilità di venire con i mezzi, che mi ci vorrebbero 130 minuti tra andata e ritorno, pigiata nella metro e sballottata sugli autobus.
Non verrò a condividere i saluti di circostanza, né a mescolarmi alle belle frasi a metà tra la citazione e la rielaborazione, esibite in giusta misura a riempire il vuoto temporale che ci separa dal buffet, dall’apericena, dal sushi bar.
Così facendo, oltretutto, potrò evitare di concedermi alle valutazioni screditanti degli snob disseminati tra un crocchio e l’altro e al loro quantificare i valori presenti: un vestito di Prada, un corpo modellato Klab, un Panerai Luminor, una tua foto del 2009.
Non mi unirò al coro di incensamenti che mortifica l’unicità, giudicando “straordinario” qualsiasi accadimento gli si pari davanti agli occhi, “toccante” qualsiasi cosa richieda una minima attenzione, “geniale” qualsiasi idea esuli il già visto.
Insomma non verrò.
E non a causa del “mio inutile ricercato tentativo di non appartenere a questo mondo”, come spesso ti ho sentito pontificare sottolineando ad alta voce il mio disagio nello stare nei luoghi deputati all’arte contemporanea. E nemmeno per ripicca o stupida presa di posizione contro il fatto che per tutta la settimana non mi hai risposto al telefono. O ancora per farti pagare che non ti sei fatto più vivo dalle 13.40 di quello stupido lunedì scorso, quando mi hai lasciata da sola al ristorante, con il conto pagato in un gesto finale di signorilità presunta che non ti avevo richiesto.
Non verrò probabilmente perché, come credo ormai tu abbia capito, non ti considero il grande artista che pensi di essere; e nemmeno quello, leggermente minore, che altri si sono velocemente convinti tu sia. Ho infatti definitivamente concluso che il rinchiudersi in una grotta per un mese e poi farsi un selfie all’uscita, abbacinato dal sole, non si possa definire arte. Si è vero, il critico del New Yorker, ha definito la cosa “paleolitismo tecnologico, ovvero il punto di unione tra quello che eravamo e quello che siamo” e Vittorio Sgarbi ha trovato il tuo lavoro “degno nella ricerca della giusta luce che era già stata prerogativa caravaggesca”. Ed è pure vero che il Guggenheim ti ha comperato, a cifra esorbitante, uno dei tre selfie di uscita da quella grotta sul carso triestino, quello di cui hanno apprezzato sullo sfondo il “toccante statico svolazzare delle foglie mosse da una bora partecipe”.
Non posso nemmeno negare che una ricca collezionista giapponese abbia speso una cifra impensabile per ricreare l’habitat di quella stessa grotta all’interno della sua villa a Kyoto, solo per potersi permettere un selfie con te all’uscita.
Scusami, ma anche se ti apprezzo molto, io continuo a credere che tutto ciò non possa automaticamente qualificarti come artista indispensabile all’umanità.
Anche se, lo ammetto, la foto con l’autoscatto che abbiamo fatto insieme nel 2003, all’uscita del Piccolo Teatro di Milano, quaranta minuti prima dello scandire dei miei ventuno anni, rimarrà per me per sempre l’opera d’arte più bella appesa alla mia parete.
Ti mando questo mazzo di fiori e questa lettera per dirti che molto più semplicemente non verrò perché oggi, finalmente, è una meravigliosa giornata di sole di primavera.
E sarebbe un peccato perderla.
Con affetto
Lisa