“Mamma, mamma!” - “ti ho detto di non chiamarmi mamma!” - “allora come ti devo chiamare?” - “non chiamarmi!”.
Era questa la risposta che mia madre dava a me e mio fratello tutte le volte che il buio iniziava a penetrare la sua anima. La nostra era una vita molto serena per certi aspetti... ma tra le pieghe di un vestito steso al sole, in un posto dove il vento soffia sempre molto forte, in quelle pieghe qualcosa ci rimane attaccato, una piccola foglia, una scia di polvere, e allora tutte le volte che vai a raccogliere il tuo vestito devi sempre farci i conti con quel vento. Come lo lavi il buio dell’anima? Come lo illumini? Fissando il sole per ore? No! Perdi la vista e il buio rimane.
Mamma, quella meravigliosa creatura capace di regalarci la vita e disposta a morire per vederci felici, aveva guardato il sole tante volte perdendosi nello sguardo di un uomo e si era bruciata. Accecata da un grande abbaglio, preda del buio, si svestiva dei panni di mamma, impedendo a me e mio fratello di ricordale, chiamandola, che lei ricoprisse quel ruolo. Un giorno rientrando a casa vidi mia madre stesa sul pavimento, pensai al peggio, mi avvicinai e mi accorsi che stava solo dormendo. In realtà lei qualche volta dormiva a terra. Da bambina si riposava così, come tutti nella sua famiglia, a volte sdraiati su una coperta, altre su mucchi di spighe di grano. Le fui vicina, mi chinai poi mi stesi dietro lei, abbracciandola. Ebbi la sensazione di assoluta appartenenza, io e lei stese su quel freddo pavimento, duro come le nostre esistenze ma strette in un caldo abbraccio che sapeva solo d’amore. In quel momento un raggio di sole illuminò quell’angolo del grande lastricato in marmo, percepii quel bagliore come il faro di una torre altissima che riesce a illuminare le vie più buie e lontane.
Quel pomeriggio vegliai il sonno di mia madre per ore, ad un certo punto rialzandomi da terra notai che tra le mani teneva una chiave, ebbi un flash e pensai che quella doveva essere la chiave di una delle stanze della casa in cui io e mio fratello non avevamo mai potuto accedere e che per questo motivo, definivamo: “la stanza dei fantasmi”. Afferrai la chiave, salii le scale che portavano al secondo piano dell’appartamento. Fui davanti la porta della stanza, un giro di serratura poi un altro. Spinsi l’anta verso l’interno poi la richiusi, un respiro profondo e di nuovo la mano sulla maniglia, una leggera pressione… davanti a me, centinaia di lampade ad olio di ogni forma, tutte accese. Tante piccole fiammelle una accanto all’altra. Il focolaio della casa, la donna, la mamma, teneva accese tante lampade affinché la nostra famiglia rimanesse sempre unita anche nei momenti in cui la luce sembrava spegnersi. Chiusi la porta, mi girai per tornare da mia madre, lei davanti a me. Ci guardammo, silenzio… poi parole… sussurrate, i respiri corti, le mani incrociate, io in lei, lei in me. In punta di piedi percorsi la strada fatta di luci e ombre che portava alla sua anima. Mi fermai in ogni angolo buio, tra le mani stringevo la chiave della “stanza dei fantasmi,” con quella ogni volta aprivo la porta, prendevo una lampada e proseguivo il cammino. Fui quasi stordita dal senso di amarezza che mi pervase quando ebbi coscienza del fatto che né io né mio fratello avevamo desiderato davvero scoprire cosa si celasse dietro quella stanza e che probabilmente scoprendo il buio, avremmo compreso quanta luce nascondesse nel profondo, nostra madre. Lei era stata per noi un faro, quello che illuminava le nostre vite, si era presa cura di noi da sola, sempre. Un grande faro che diffondeva la sua luce su tutto ma non su se stesso e rimaneva lì, in alto, da solo a osservare ciò che lo circondava. Sarebbe bastato che io e mio fratello prendessimo la chiave che apriva la porta di quella torre, per diventare i guardiani del faro… il nostro faro.
“Mamma, ti voglio bene!” – “Abbracciami”.