Una volta ho letto che da anziani si vive lucidando i ricordi.
Per immediata associazione mentale - vivo di questi cortocircuiti - mi è passata per la testa l’immagine di un cimitero, con quell’odore malinconico di fiori appassiti, e le donnette che strofinano panni sulle lapidi e lustrano scritte in ottone. Tristemente, l’ho visto fare spesso a mia madre. Non mi è piaciuta come idea, anche perché ho il vizio di rispolverare sovente le cose riposte nel mio magazzino di avvenimenti e sensazioni passate, e non per questo mi sento precocemente anziano, o comunque proiettato nostalgicamente all’indietro. Secondo me i ricordi sono chiavi che aprono delle porte, che a loro volta hanno altri accessi che portano ancora in altre stanze, e via discorrendo. Non mi piace nemmeno chiamarli genericamente ricordi, preferisco la parola Memoria, che è fatta di una sostanza più corposa e soddisfacente, almeno per me. Per esempio, sono qui adesso che scrivo chiuso nel mio studiolo (molto molto “olo”, la claustrofobia aiuta la concentrazione) e ho di fronte la mia piccola ma amatissima collezione di chitarre, tre per la precisione; ed ecco che – tac! – scatta la memoria: pomeriggi passati a studiare da autodidatta, ostinato e deciso nonostante le dita corte e poco agili che non riuscivano a coprire la tastiera, i polpastrelli massacrati dall’esercizio. Avevo dieci anni o poco più e una voglia bruciante di tirare fuori accordi che non fossero sordi o stonati, maniacale nel ripetere sempre gli stessi passaggi finché il risultato non diventava almeno decente. Qualche anno in più e i calli ormai formati, ed eccomi a tentare di musicare per gioco una ballata scritta da un cugino adesso lontano ma allora più vicino in corpore. Ricordo ancora i versi: “Un vecchio marinaio – negli angoli di un porto – raccontava a tutti – del suo figliolo morto … “. Una roba tristissima, non credo abbia avuto miglior fortuna di quelle che già allora (criminali lo si diventa nell’adolescenza) scrivevo io. E – tac! – altro ricordo: il cugino suddetto, figlio di una zia che frequentavo molto, me lo rammento giovanotto, umbratile e scontroso, contestatore per partito preso. Viveva secondo strani orari e svolgendo misteriose attività, sordo alle domande e avarissimo di risposte, specie verso di me bambino. Mi intrufolavo in sua assenza nella stanza dove dormiva, e frugavo tra i suoi libri e i suoi scritti. A parte letture un po’ monotematiche (“I dieci giorni che sconvolsero il mondo – Storia della Rivoluzione d’Ottobre” e “Diario del Che in Bolivia”, per fare un paio di esempi) scoprii i testi di Dario Fo, le inchieste del commissario Sanantonio – “Cime di rapa in salsa verde”, nientemeno! – e alcune riviste che spiegavano con dovizia di immagini particolareggiate ciò che papà non mi avrebbe mai detto. E Linus, a cui sono stato abbonato per diversi anni. Tornando poi al suono languido della chitarra (tac!) una sera, trovandomi a Lisbona - per lavoro, ahimè, sempre per lavoro - mi portarono a sentire una cantante di fado. Il fado è una musica che, se ti lasci catturare, ha una sua ammaliante malinconia: con dita lunghe e unghiute ti scava solchi profondi proprio lì, tra lo stomaco e la gola. Sono stato catturato, e ora quelle melodie hanno il loro posto sugli scaffali del mio magazzino. E si potrebbe andare avanti all’infinito, in una inesauribile catena di Sant’ Antonio fatta di memoria e tela di Penelope.
Vorrei però dire che si può vivere coi propri ricordi senza viverne, senza concedere a questi ultimi l’esclusiva dei nostri pensieri. Non sono e non mi sento un nostalgico, e so di essere un uomo incline al sorriso, ben adagiato nel suo presente e – spero – ironico, nonché a volte persino strafottente.
E allora perché questo vaniloquio?
Perché i ricordi possono essere una lampada di Aladino, tu la strofini per bene e viene fuori il genio, quello delle favole. E che fa, ‘sto genio? Esaudisce tre desideri? Macché, ti dà degli ordini, accidenti! Ti dice: “Rammenta, figlio d’un cane!”
E tu? Obbedisci, ben contento di farlo. Vai, forza, olio di gomito!