Allora non lo capivo, che l’avevamo scampata. Allora non lo capivo, che i Tedeschi erano più numerosi, più addestrati e più armati di noi: pensavo che il mio cavallo mi avrebbe consentito di saltare su uno di quei panzer grigi come la tempesta e alti come montagne, e di spaccare la testa a sciabolate ad ogni crucco carrista.
Io non lo capivo, ma il tenente Marchesi sì.
Era giovane, Su Tenente: aveva i capelli e i baffi biondi, e due occhi gelidi come il ghiaccio. Due occhi che bastavano a comandare, più di un ordine sbraitato dal sergente maggiore; due occhi che leggevano il futuro, che vedevano cose che io avrei visto solo con vent’anni di ritardo.
Ero dietro Su Tenente, mentre i carri tedeschi passavano sul Ponte Mannu: si erano impegnati a passare senza far saltare il ponte e a lasciare la Sardegna dopo l’armistizio dell’8 settembre del 1943, senza che il Tirso la dividesse a metà. Eppure, io non ci credevo alla parola dei crucchi, e sapevo che non ci credeva nemmeno Su Tenente, che era antifascista come me e che teneva una copia de “Il Manifesto” nascosta dentro la divisa, proprio all’altezza del cuore.
I cavalli fremevano, tirando morso e redini, gli uomini sudavano sotto gli elmetti, i tedeschi passavano senza guardarci. Erano lì, biondi e bastardi, a portata di sciabola. Masticavo tabacco e chiedevo: “O Su Tenente, di isparausu? O Su Tenenti, di isparausu?”.
Un lampo, in quegli occhi gelidi, un ordine scandito senza parlare: “Fermi”.
E poi una manciata di parole, precedute da uno sguardo che scorreva sul futuro. Tre parole sussurrate, solo per me: “Non bisogna sparare qui, non bisogna sparare adesso”.
I Tedeschi continuavano a passare, quando il Sergente Piras mi venne vicino: “Dettori, prendi quattro uomini e torna a Oristano. Trova una casa grande e sicura e requisiscila per installarci l’armeria: noi arriveremo prima che faccia notte”
“A Oristano? E dove la trovo una casa tanto grande da farne un’armeria? E come posso requisirla senza inimicarmi la popolazione?”
“Cazzi tuoi, Dettori. Vai e trovami quella casa. Oppure, quanto è vero Iddio, ti faccio degradare”.
Stavo per ribattere, ma Marchesi decise di regalarmi altre quattro parole, con gli occhi fissi sulla nuca dell’ultimo tedesco in marcia verso la Corsica: “Caporale, non discutere gli ordini del Sergente. La casa la trovi. Solo…stai attento a cosa cerchi”.
“Stai attento a cosa cerchi” Quelle parole mi battevano in testa più del trotto del mio cavallo, mentre marciavo verso Oristano.
Cosa devo cercare? E dove?
Oristano in piena guerra sembrava una città fantasma: porte e finestre sbarrate, strade deserte, odore di polvere e odore di paura. Il Pagliaccio che urlava dal balcone verso il cielo di Roma voleva gettare un paio di morti sul tavolo della pace: lo attendeva il Gran Sasso, poi Dongo e Piazzale Loreto. Io ancora non lo sapevo, ma Su Tenente forse sì.
L’unica porta aperta era quella del Parroco, al quale chiesi dove potevo trovare la casa più adatta per l’armeria. Pensavo che mi mandasse affanculo, e invece mi indicò una collocazione senza battere ciglio: una grande casa su due piani, collegati tra loro da una scala in legno e ferro. Il piano terra si risolveva in un unico, grande ambiente, con le mura bianche e alte: perfette per montarci la rastrelliera dei fucili e per accatastare le casse con le munizioni.
Salii la scala, e notai che la porta di accesso al piano superiore era bloccata da una pesantissima catena con un lucchetto che dava l’aria di non essere aperto da almeno un centinaio d’anni. Chiesi la chiave al Parroco, ma, quasi a non volersi soffermare sul problema, mi disse di non averla mai avuta. Peccato: l’appartamento al piano superiore sarebbe stato perfetto per il posto di guardia, ma poco importava. Avevo l’armeria, il picchetto avrebbe dormito vicino alle armi, le avrebbe anche controllate meglio. In culo al Sergente.
Lo squadrone arrivò che mancava poco all’imbrunire: il Sergente mi diede una pacca sulla spalla, e l’incarico di predisporre le rastrelliere e di accatastare le munizioni. Mi assegnò il comando del picchetto, precisando che avrei potuto lasciare di sentinella due soldati, e farmi tutta la notte in branda.
Sembravano tutti contenti, ma Su Tenente continuava a guardare la casa con quei suoi occhi che sapevano di gelo e futuro. “Sei stato attento a quello che hai cercato, Dettori?”
“Sì, Tenente: l’ambiente è perfetto per custodire le armi. E c’è anche lo spazio per riposare”
“Non ti ho chiesto se sei stato attento a trovare un ambiente adatto per l’armeria. Ti ho chiesto se sei stato attento a cosa dovevi cercare”
“Tenente, io…”
“Non perdere tempo a allentare il cinturone, Dettori: dormiremo poco, stanotte”.
Per una volta, pensai che Su Tenente esagerasse, che fosse troppo perso nel suo sguardo lungo. Io ero stanco, e volevo dormire. Così, mi chiusi nello stanzone con due soldati, li misi di fronte alle rastrelliere, dissi loro di non provare a chiudere gli occhi, quindi mi accoccolai sulla branda di fortuna che avevamo realizzato e, in men che non si dica, scivolai in un sonno pesante come il piombo che dovevamo custodire.
“Dormiremo poco, stanotte”