Pubblicato nel 1935, il primo romanzo di Sàndor Màrai (1900-1989), il più importante scrittore ungherese, si rivela, come nelle abituali corde dell’autore, un romanzo che ti tocca nell’intimo, una riflessione sulla vita, sul proprio esistere, sul rapporto con la VITA e con la vita di tutti i giorni.
Kristòf Komives ha trentotto anni ed è giudice; in questo periodo si occupa di divorzi. E’ giudice ereditario: il padre, il nonno, il bisnonno, tutti giudici. Non si sfugge al proprio destino, gli sembra.
Legge, giustizia, verità: mai come ora questi sostantivi gli sembrano così difficili da analizzare e verificare.
Nel romanzo si parla di vite usuali, che si sviluppano ordinatamente, che DEVONO essere vissute in quel modo, e a nessuno pare che ciò dispiaccia o crei disagio.
Il narrare ha un andamento lento che ti avvolge lo spirito.
Per due terzi della storia seguiamo il giudice durante una normale giornata: lavoro, famiglia, incontro per la “merencena” (un happy-hour ante litteram). Osserva e riflette su di sé e sull’ambiente umano che lo circonda.
La mattina dopo deve amministrare la richiesta di divorzio di due ex compagni di scuola: Imre Greiner, affermato medico, e la moglie Anna Fazekas.
E nel rientrare in casa entra in scena, inaspettatamente, proprio Imre, che non incontrava da anni e che gli chiede con insistenza di essere ricevuto a casa del giudice stesso, cosa non proprio corretta, vista la posizione di quest’ultimo.
Il padrone di casa acconsente. L’incontro andrà avanti tutta la notte. Imre gli parla della sua vita e degli otto anni trascorsi con Anna. Gli ultimi quattro sono stati di angosce e malcontenti: tradimenti, litigi, astio vicendevole? Niente affatto.
Più semplicemente il non riuscire a trovare un senso al presente e al futuro, non riuscendo a capire ed accettare tutto il passato.
Domande cui, ammetto, non è facile dare risposte.