LA CONDANNA
Lo studio medico dove mi trovo, secondo la tradizione tedesca, è perfetto, di un pulito immacolato, asettico, ha un forte odore di disinfettante. La stanza contiene la scrivania del medico e in fondo, ai due lati della grande finestra, due lettini adibiti alle visite, nascosti da eleganti tende di un color verde scuro. Dalla finestra si vede un panorama d'alberi semispogli. L’autunno è precoce a queste latitudini, nel nord del paese il gelo arriva presto e ormai manca poco all’inizio della stagione fredda. In uno dei due lettini ci sono io, distesa e seminuda, infatti, ho dovuto togliere tutto l’abbigliamento, sono a seno nudo che guardo le mani del dottore che mi palpano, premono, toccano in tutta la superficie del petto. Evito di guardarlo negli occhi per non far notare il mio imbarazzo. Restare lì, esposta senza difesa alla mercè di un uomo. È un medico, ma pur sempre un uomo. Sono sempre stata orgogliosa del mio seno, grande e ingombrante. È sempre stato motivo d'ammirazione da parte dei maschi del mio paese, ed è stato lui il motivo di molti dei miei problemi. Mi sto sottoponendo a questa visita, proprio per un problema che mi porto dietro da un po’ di tempo. Sono nelle mani di questo professore tedesco che, apparentemente, sembra insensibile. La sua faccia non esprime nessun'emozione, lo vedo e lo sento che ritorna su alcuni punti, insiste nel palpeggiare, poi guarda le radiografie. La cosa mi preoccupa e non poco. La mia visita è stata condizionata da disturbi che nel tempo si sono fatti sempre più frequenti. Il dottore adesso mi fa mettere seduta sulla sponda del lettino, continua nella sua ricerca, alla fine si decide a lasciarmi e fa cenno di rivestirmi. Esce dalla tenda e va sedersi al tavolo. Rimango alcuni minuti seduta e penso, avrà trovato qualcosa? Non ha parlato, nemmeno una parola, l’ansia mi prende e non riesco a vestirmi come si deve. Tralascio di mettermi il reggiseno, a che serve, ormai il pudore è superfluo e se vuole ancora palparmi, sono pronta. Siamo seduti di fronte, faccia a faccia. Il silenzio ci avvolge insieme all’odore del disinfettante. Incrociamo i nostri sguardi e il suo non promette niente di buono, la sua diagnosi è come un colpo di frusta sulla pelle nuda. La condanna è arrivata implacabile, dura, il mio cuore sobbalza, il verdetto è lì in quelle poche parole che a stento ho capito, ma che esprimono tutta la loro gravità. Restiamo ancora in silenzio, forse, non trova le parole per dire alla sua paziente, l’atroce verità. Mi passa dei fogli, sui quali, scritti in tedesco, c’è la mia condanna. Un tumore al seno in stato avanzato, il mio tedesco è pressoché scolastico, ma il nocciolo del discorso è chiaro come la luce che filtra dai vetri appena appannati della finestra. Fuori fa freddo, ma quello che mi è sceso nel cuore è ghiaccio puro. Sono diventata una statua di sale. Sono sola in terra straniera, chi mi aiuterà, chi mi assisterà, a stento capisco la lingua, in tutti gli anni passati in Germania non sono riuscita a perfezionare uno studio adeguato. La parlo sì, ma devo sempre mentalmente fare una traduzione e fin, quando si usa questo sistema non si può dire di conoscere veramente una lingua.
È inutile restare ancora lì, mi alzo con sofferenza, ma con una parvenza di sorriso saluto il dottore dalla faccia affranta, sembra molto costernato dell’accaduto, da buon tedesco, però, si alza e con perfetto stile teutonico mi stringe la mano vigorosamente, come voler infondermi in quella stretta la forza di affrontare il mio destino e la speranza di poter risolvere al meglio il problema.
Ci salutiamo ed esco dallo studio con gambe malferme. Sapere che il tuo futuro è circoscritto e limitato da incognite, legate all’imponderabile corso di una malattia, non è il miglior viatico per fare progetti. Ora, la mia domanda, più importante e impegnativa del momento, è: “cosa fare”. Sono riuscita a tornare in quella che io definisco la mia casa, un'abitazione terra cielo in un complesso di case, una a fianco dell’altra, attaccate, un lungo e compatto muro di cemento di fronte al mare. Una sola strada che lo costeggia e lo separa dalle rocce degradanti verso l’acqua. D’inverno, tutto è coperto dalla neve per più mesi l’anno, si resta isolati per moltissimo tempo. Non s'incontra e non si frequenta nessuno. La domenica si resta a casa, tutto il giorno, chiusi fra quelle quattro mura. Il solo rumore che si sente sono le grida sgraziate dei gabbiani. Veleggiano nel vento gelido che troppo spesso sibila fra le fessure delle imposte. La città più vicina è a trenta chilometri di distanza, quelli che percorro io, tutti i giorni, in bicicletta per andare al lavoro da più di venti anni.
Questa è stata la mia dimora fino ad oggi, sono trascorsi 25 anni da quando sono andata via di casa per cercare altrove quello che non ero riuscita ad avere nel mio paese. Il mio piccolo paese natale abbarbicato su una collina dove la neve, nei miei primi venti anni, l’ho vista solo una volta. Il paese dove sarò costretta a tornare, con questa condanna che dovrò portarmi dietro.