Scrivo dalla spiaggia con tutti i sensi spalancati per captare questo paesaggio insolito e godere della fortuna che ho di essere a quest’ora in questo posto.
Il cielo mi ricorda quello olandese, si mangia tutto l’orizzonte specialmente se avvolto da nubi, che con disinvoltura estrema e con eleganza raffinata si muovono a destra e a manca, permettendosi a ogni istante le composizioni più impensate. Ho imparato ad amare le nubi quando ho visitato l’Olanda, là dove il cielo è il “paesaggio” per eccellenza e dove ci sono ben sei nomi diversi per designarlo. Oggi le nubi sono allegre, i colori tenui, delicati e formano come una ghirlanda su questo nostro mondo.
Ai miei piedi ho il risucchio del mare che si avvicina, il sole in pieno viso, il richiamo dei gabbiani da una spiaggia all’altra e questo forte sapore di alghe lasciate scoperte dalla marea.
Mi sembra di vivere in Bretagna un’esperienza fuori del tempo, di quel tempo che avevo impacchettato, pensando mi appartenesse.
Mi piace della Bretagna il suo aspetto selvaggio, i suoi paesaggi quasi lunari, il mare che va e che viene, una modestia tranquilla che nasconde tesori imprevedibili, una bellezza che non ama apparire, ma che si lascia scoprire ripagando generosamente uno sguardo d’amore.
In questa storia fuori del tempo sono tre i protagonisti che si dividono i ruoli con un rispetto sornione, pronti alla prima occasione a invadere il territorio uno dell’altro: sono il mare, il vento, la terra.
In Bretagna non si parla che di loro: non esiste qui dire buongiorno o buonasera. Se incontri qualcuno nelle tue passeggiate, ti dirà due parole sul mare, un commento sul vento. Un uomo non dirà a una donna che corteggia parole d’amore: parlerà della terra, del cielo, della pesca.
La tempesta è l’avvenimento per eccellenza: tutti fuori per controllarne il furore, ne ammirano la struggente bellezza. Le case costruite col granito del posto, solide, sono al riparo dalla furia degli elementi, ma gli alberi piegati ricordano il dorso incurvato dei monaci in adorazione, solo che loro non si risollevano più: calve da un lato, bruciate dal sale gettato dal mare, modellate per sempre dal vento.
Ogni cosa diviene scultura, tranne la terra che viene letteralmente divorata dal mare e la sabbia che diventa come l’acqua: penetra dappertutto e dopo ogni tempesta, con pazienza, gli uomini con gli attrezzi riportano dal villaggio la sabbia sulla spiaggia, come si riconducono dai genitori dei bimbi dopo una fuga.
La pioggia è trattata con rispetto, per amore alla terra: non dicono mai che piove ma piuttosto che “cadono dei chicchi” (il tombe des grains). Scende quasi sempre di traverso, sembra fragile, alla mercé del vento che ne fa quello che vuole e non ho che da tenermi stretta nel mio supercompleto di gomma, concepito perché non passi né goccia, né sabbia, né vento, né di sbieco né dal sopra né dal sotto.
Persino i loro zoccoli sembrano piccoli carri armati: ci infilano dentro i piedi con le pantofole portandosi dappertutto il calore tiepido di casa.
Ma anche quando al caldo sotto le coltri, i nostri protagonisti non lasciano in pace nessuno. Tutta la notte il sibilo del vento e il rumore sordo del mare, onnipresenti, accompagnano come una musica di fondo l’ abbandono al sonno. Quando invece, a volte succede, tutto è calmo, sembra di godere di una pace insperata che sgomenta, come quando dei bimbi terribili ne stanno preparando una delle loro o si sono improvvisamente ammalati. E corri al mare, per vedere se non gli è successo niente. Non par vero che sia così placido e tranquillo, e ti senti fiero come se fossi riuscito a convincerlo personalmente a diventare ragionevole.
Il tempo, come una donna capricciosa, cambia umore ogni mezz’ora: fa più caldo quando piove, più fresco sotto il sole, mai freddo. Il vanto dei contadini è che le loro bestie possono star fuori tutto l’anno a brucare un’erba di un verde smagliante, persino in inverno, come se fossero di primavera su un prato inglese.
La mattina sono al porto, a osservare lo scarico del pesce dai pescherecci, la pazienza con la quale i marinai lo tolgono dalle reti, la sua brillantezza. Gesti estranei alla mia vita, che mi riempiono di stupore e meraviglia. E i mercati, non ne ho mai persi uno: vedere ciò che è più in uso, cosa vendono che a Parigi non si trova, il colore delle verdure, la loro grossezza, freschezza e il loro prezzo. E poi, soprattutto, la gente. Mi piace osservarla, sentirla parlare bretone, vedere attraverso la scultura vivente dei loro visi le loro preoccupazioni, abitudini, la loro fierezza, la loro chiusura. Il bretone è una lingua con un suono duro, nordico, con particelle che messe davanti o dopo il sostantivo, lo trasformano da non riconoscerlo. I nomi dei villaggi, dei paesi, delle strade mi ricordano antiche fiabe e mi sembra, pronunciandoli correttamente, di entrare in un regno diverso abitato da gente semplice che lavora duro e che non si lascia abbattere da nessuna avversità. E la gente che ama questa terra, questo mare, gelosa degli sguardi insolenti dei “rapaci”, come chiamano loro i villeggianti estivi, finalmente in questo periodo dell’anno se li possono godere in santa pace.
Ho scoperto di essere attratta verso il mare con un interesse che non avrei mai immaginato. Ma soprattutto faccio l’esperienza concreta di un qualcosa più grande di me, di farne parte integrante, e di trovarmi perfettamente a mio agio e al mio posto.
In occasione di questo soggiorno, ho fatto pace con gli elementi della natura: mi sentivo sempre in lotta con loro come fossero contro di me: il sole faceva male al mio “lupus”, l’acqua ai reumatismi, il vento agli occhi. Qui mi sono lasciata frastornare dal vento, accarezzare dal sole, cullare dall’acqua e portare dalla terra.
La stagione invernale che ho scelto per questa vacanza, mi dicono, è la meno splendente di colori, ma mi piace assai la nudità ancora più indifesa che si mostra ai miei occhi. E’ raro percorrere strade che costeggino la costa: sono state costruite vicino all’abitato, al riparo dalla furia degli elementi e solo un sentiero mal tracciato porta in punti panoramici dove, come unici compagni, vedo immense dune deserte spelate dal vento e salate dal mare e rocce che si buttano a picco sulle creste dell’onda.
In questa distesa di lande dove è regina la brughiera, le linee disegnate dai pini non hanno nulla di simile, nella mia memoria, a quelle dei nostri paesaggi.
Percorrendo la campagna incontro delle cappelle dove croci di pietra implorano la
tempesta di risparmiare i loro uomini.
Mi hanno descritto i marinai come gente allegra, dei poeti, rotti alla solitudine. Quando arrivano al termine della loro carriera, non vogliono sentire più parlare di lunghi viaggi e si accontentano di andare a pesca in alto mare e di radicarsi sulla terra.
Ed eccomi anch’io arrivata alla fine del mio viaggio in una parte della Bretagna vista attraverso il suono dei miei occhi, il piacere delle mie orecchie e il calore del mio cuore.