Adorava le cravatte non comuni. La preferita era una lingua di seta rosso acceso con grandi disegni, tipo maglie di catena, incastrati due a due: uno di colore bianco, uno di colore blu. Nel cappuccio era impresso il simbolo di una prestigiosa ed antica casa di moda parigina: una donna ed una bambina che ballano un girotondo tenendosi per mano, come all’interno di un vortice.
Si sentiva in perfetta forma per la serata. Era stato invitato da una ragazza conosciuta nel piccolo negozio di prodotti ortofrutticoli a chilometro zero a fianco dell’antico forno sulla piazzetta di Porta Montanara. Entrambi stavano acquistando fragole. Era carina. Un tatuaggio sull’avambraccio. Un pentacolo sulla cui circonferenza si leggeva: “Treguna mekoides trecorum satis dee”. Quel leggero vestito di lino bianco corto al ginocchio, le donava, come il cranio rasato e il lieve rotacismo. Non un filo di trucco. Una sfera campeggiava al centro della lingua. Una cicatrice impertinente le sorrideva allo zigomo destro. Le mancava un compagno per partecipare ad una conferenza il cui tema era “Mutazioni Composte”. Sarebbe passata lei a prenderlo.
Vibrò il telefono. Sul display: “ti aspetto qui…nel parcheggio”.
“Permesso…” Aprì la portiera della BMW X2 gialla e un profumo antico lo avvolse. Notò sentori agrumati, di pesca, gelsomino e sandalo; quest’ultima essenza non usuale per un profumo femminile. Era splendida in un vestito color lavanda stretto nei punti giusti. Guidava scalza, le scarpe decollete arancioni con tacco dieci erano appoggiate sul tappetino.
Fermi al semaforo allungò una mano alla cravatta, la girò e, con curiosità, ne guardò il cappuccio e sorrise.
“Che c’è?” – le chiese.
“Lo sai che profumo ho sulla pelle?” – la domanda non richiedeva una risposta.
“Arpège!” – disse alzando il sopracciglio sinistro con un’espressione malandrina a fronte dell'altra, attonita.
La strada diveniva sempre più stretta attraverso campi coltivati a pesco ed albicocco.
Non distoglieva mai lo sguardo dalla strada.
Dopo un'ampia curva comparve la meta. Dietro un’alta cancellata in ferro battuto le cui decorazioni si ergevano leggere come ricami, una nobile villa del ‘700 li attendeva. Il suo nome: “Sesquialtera”. Pareva una nobile sperduta, circondata dalla rozza campagna che la abbracciava avidamente, con invidia.
Parcheggiata l’auto lungo una folta siepe di bosso, lo guardò e gli chiese:
“Potresti baciarmi, per favore?”
Le labbra si sfiorarono appena, ma la cute di lui fu sorvolata da una piacevole onda anserina.
“Potrei sapere il tuo nome?” – chiese lui.
“Margherita” – rispose “E tu?”
“Andrea”
Attraversata la serliana d’accesso percorsero il corridoio a destra che conduceva alla sala delle feste ove il vociare veniva amplificato dal soffitto decorato a grottesche.
Un uomo, un frate francescano, le venne incontro e la accolse in un abbraccio forte e intimo al contempo.
Margherita era la relatrice principale: il suo nome era al centro del tavolo degli oratori.
Andrea sedette in prima fila con lo sguardo colmo di ammirazione, lui sarebbe morto piuttosto che parlare in pubblico, e curiosità.
Dopo i convenevoli di rito, Margherita iniziò a parlare, a braccio; altra circostanza che per lui sarebbe stata quasi impossibile.
“Il vento elemento invisibile, tuttavia percepibile, soffia in noi la sua voglia di armonia. Siamo canne d’organo separate, parallele, ma unite da radici che affondano nel medesimo somiere. Abbiamo anima, labbra e desiderio di oscillare tra i vari registri. Io ho trascorso un periodo della mia vita in cui non oscillavo più, avevo smarrito i miei registri; precipitavo, come un grave immerso in un liquido e il fondo pareva inesistente. Ero sporca, rinsecchita arida come una foglia autunnale, poi quell’uomo – disse indicando il frate – è apparso, improvviso come il vento di primavera, un ciclone che mi ha pulita. Mi ha teso la sua mano e tratto dalla strada in cui “vivevo”, mi prostituivo tra alterazioni anche alcoliche e mi ha donato la sua convinzione per la sacralità del vivere con gioia, la sua passione per la musica e l’amore incondizionato di un padre. Ciascuno di noi necessita di cicloni per la felicità. Ora scrivo libri, storie per ragazzi, avventure ove i protagonisti, una famiglia, vivono in una astronave marina, esplorando l’universo degli sconosciuti abissi. Il padre, capelli bianchi ed occhi azzurro intenso, si chiama Albino, come il mio salvatore. Questa sera sono qui in compagnia di un ragazzo il cui nome, Andrea, l’ho saputo poco fa; ci siamo conosciuti questo pomeriggio dal fruttivendolo, entrambi stavamo acquistando fragole, indossa una cravatta di Lanvin, io mi sono profumata con “Arpège”, famosa essenza creata per Madam Lanvin; uno dei due profumieri si chiamava Fraysse, André Fraysse. Io mi chiamo Margherita. Le coincidenze danzano in cerchio, il ciclone cui non posso non abbandonarmi soffia nella canne la sesquialtera. Non so quale sia il sentimento, ma sono felice, mi sento volteggiare come satin nero... la felicità è ciclonica”.