Vincenzo Salineri, il più amico che collega di Francesca Bellini, originario di Caserta, guardando certe foto dei bambini, figli di Francesca, colti in momenti d’allegria aveva detto di loro ‘Teneno ‘e grilli int’all’uocchie!’ Egli, un soggetto attraente dalla forte impronta mediterranea, proveniva dalla terra dei Mazzoni e manteneva vivo il suo vernacolo, certe sue abitudini e la filosofia del ‘quant’anne vuo’ campa’’, intesa come farsi scorrere di dosso angustie, preoccupazioni, incazzature e negatività in generale. Dimorava al nord da più di dieci anni ed era rimasto single. Aveva avuto delle storie, al suo organo eiaculante non mancavano le penetrazioni nelle fessure veicolanti alla riproduzione di una nuova vita, ma non c’era ancora stata una happy end. Uno dei ricordi preferiti della sua infanzia era quello del profumo del caffè al primo mattino, quando stava ancora a letto e faticava a svegliarsi per andare a scuola. Al primo sentore, Vincenzo scattava come una molla, faceva sobbalzare il fratellino Rosario che gli dormiva a fianco, e si precipitava verso la cucina travolgendo tutto quello che incontrava al suo passaggio. E la dolce voce della mamma Amalia che non negava: “Teh, sulo n’assaggio, eh?! E po’ curre int’’o bagno. Ja’, fa’ampresso!”
Qualche anno dopo, un giorno di festa, la famiglia Salineri andò in gita a Vitulazio, zona storica della provincia di Caserta per visitare un allevamento di bufale. I proprietari della masseria erano vecchi amici di Gigino Salineri, il capofamiglia. In quell’occasione Vincenzo e Rosario rimasero incantati, ebbero come una splendida illuminazione in aetas puerilis, perché li fecero assistere al parto di una bufala. Appena un esserino neonato venne alla luce, i due fratellini applaudirono ed emisero gridi di gioia, coinvolgendo anche gli adulti presenti. La signora Amalia, sulla strada del ritorno, trattenne a malapena qualche lacrimuccia.
“Ama’, ch’è succiesso? Pecchè stai chiagnennno?” le chiese premuroso il marito.
“Niente, niente, Gigi’, nun ce fa caso.”
“Comme nun ce fa’ caso?! Pecchè si’ triste, core mio? Nun te siente buono?!”
“Stevo…Stevo sulamente penzanno che un giorno i figli nostri se ne andranno e ci lasceranno soli in questa terra nostra…”
“Ah.”
Il signor Salineri dette una leggera manata al volante, strinse la mano della moglie per qualche attimo e si chiuse in un suo silenzio.
I due ragazzini, intanto, dormivano beatamente sul sedile posteriore dell’auto. Il sole al tramonto sembrava accompagnare con carezze rossastre i sogni ed i turbamenti di quella famiglia.
“Nun ce penza’, nisciuno tene ‘a palla ‘e vrito…” riprese l’uomo. “Nun è ditto che saranno per forza i soliti emigranti, può essere pure che troveranno ‘nu lavoro, ‘na fatica ‘a chesti parti…Impiecati comunali, ma no comm’ ’o pate,eh?!…Faciarranno ‘e direttori dirigenti!”
Risero. Erano ormai arrivati alle porte del capoluogo. I due fratelli, intanto, avevano cominciato già da un po’ a venire alle mani per finta e a ridere e scherzare in piena allegria. La sera era dolce e tiepida.
La profezia della madre si avverò per Vincenzo, quando lui aveva accumulato ventisei primavere. Ma il distacco non fu traumatico, i genitori capirono che il primogenito, brillante laureato in Economia e Commercio, assunto da una buona ditta di Milano ed inserito nel settore amministrativo sarebbe stato bene ed avrebbe sfruttato le sue capacità. E l’iniziale nostalgia che lo prese fu subito attenuata: nella stanza dove iniziò a lavorare, Vincenzo appese al muro un grande poster raffigurante delle bufale nel loro habitat. E nessuno gli disse niente, anzi apprezzarono e qualche collega gli chiese anche di portare almeno piccole quantità di mozzarelle e latticini vari in un suo ritorno dalla zona d’origine. Rosario, che era entrato nelle Poste a Pastorano, un piccolo borgo della sua provincia, per la gioia di mamma’, ad ogni occasione di rimpatriata del fratello, ripeteva allegramente: ‘O vvi’ lloco ‘o milanese. O’fra’, t’è fatto ‘e soldi!”