Come ogni quarto d’ora, tra un po’ la campana della chiesa farà riecheggiare, nella piazza e nei vicoli scoscesi e stretti, i suoi antichi rintocchi a rammentare lo scivolare impreciso del tempo umano, sciocca scansione ineffabile dell’esistenza e forse persino un poco a rievocare il senso incauto dell’impermanenza. 

 

Un altro anno è andato. 

 

Qui, in questo paesello che al primo buio sembra un presepe in una piccola valle, scorre un minuscolo corso d'acqua che soltanto in inverno non è asciutto. 

Gli stupidi botti di fine anno sono stati pochi. 

Qualche cacciatore ha sparato in aria con la sua doppietta qualche cartuccia e uno o due ragazzini hanno fatto esplodere, per le stradine spruzzate d'acqua ed odorose di legna, un paio di cartocci rumorosi, forse per darsi arie da grandi, forse per fare festa. 

 

In questo lungo intervallo di vacanza senza nessuno in casa sono rimasto nella mia vecchia stanza con la mia musica, la mia pipa ed il mio fiasco impagliato, pieno di vino buono che, accanto al bicchiere di coccio, ad un libro aperto e al recipiente in terracotta del tabacco, sta a malapena dritto sul ripiano. 

 

Sono solo in questa vecchia casa con il camino acceso e poca luce tra le mie parole.

Il cellulare è spento. Qui non c’è campo.

 

Il mio amico archimandrita monaco è venuto a prendermi per condurmi al suo eremo, tra le colline vicine, ed abbiamo trascorso e condiviso il cammino di un giorno di parole e silenzio.

Ho visitato la sua biblioteca, osservato le icone appese al muro, letto frasi di santi da lui tracciate su piastrelle bianche e presenziato al suo pregare minuzioso e sacro.

Abbiamo parlato di misticismo e fede, di fratellanza e amore, ed abbiamo mangiato, insieme ad una religiosa straniera dal cuore buono, in una cucina piccola e accogliente, un minestrone gustoso preparato da lei  con farro e grano e legumi e bevuto del buon vino rosso che con me ha fatto il suo dovere di mentore laico d’ebbrezza e di catarsi.

È stato facile scambiarci le parole senza che nessuno dei due prendesse l’altro per pazzo. Inclinare entrambi la testa per assentire al dire folle  ed umano con un sorriso complice fuori del tempo.

Io con la mia storia fin troppo piena di esistenza e lui con la sua storia devota di preghiera, fitta d’essenza. 

Siamo diversi, eppure, in corpo e anima, ci accomuna il pensare, l’amore terso per la parola, logos et verbum o chiacchiera che sia, ed il rispetto per tutti gli esseri viventi e senzienti, visibili o invisibili, perché poco importa ad entrambi la concretezza. 

Ho ripulito i nostri piatti usati con rigogliosa acqua fredda, in compagnia di un gatto grigio che poco prima si era a me appiccicato a fare le fusa, accoccolato sulle mie ginocchia, graffiando leggermente con le unghie i miei soliti jeans e che in quel momento, pigro e sornione, se ne stava acciambellato su una sedia a poltrire, con il musetto insolente tra le zampe, adocchiando i miei gesti, fingendo noncuranza allo scrosciare dell’acqua, al tintinnare dei vetri e della terracotta. 

Il mio amico non usa riscaldarsi con fuoco o gas. 

Nell’incavo pulito del suo camino ha poggiato un’icona bizantina.

Abbiamo perciò bevuto un buon numero di tazze di the bollente per tenere al calduccio gesti e parole. 

E c’era silenzio e pace, tra le colline docili della mia terra e c’era a tratti il soffio fresco di un venticello  di mare che in inverno, senza fretta, quasi insolente di sole pallido al cielo, si incanala, con sapienza antica e con pazienza, nella valle verde e marrone, un po’ appassita e mite, rarefatta dal freddo e dalla bruma. 

 

Dopo il tramonto, a casa, mi sono seduto davanti al fuoco acceso nel camino dalle mie mani, con un bicchiere di stravecchio tra le dita, come a rassicurarmi il cuore, come a proteggermi l’anima.

È lo stesso camino accanto al quale, quasi trent’anni fa, su un materasso tolto con impazienza dal letto della camera accanto, col fuoco caldo e buono, una bottiglia, del blues e l’incoscienza fertile e acerba dei miei vent’anni insorti, nacque una storia con una biondina dalla pelle chiara, i capezzoli rosa e gli occhioni verdissimi, come spugna di mare nel fondale arenoso. 

E fu una storia d’ideologia e di pelle. 

Quando muoveva la bocca il suo nasino dritto e insolente si piegava un po’ verso il labbro poroso e aveva mani calde di pane fresco e lingua docile e tenera al succhiare. 

La sua indolenza pigra, facile al guizzo d’intelligenza al tocco di un eros scanzonato, impertinente le snodava l’interno delle cosce ed era kaos nel corpo ed epos nella mente. 

Eppure delle tante parole che ci siamo dette, frusciate agli occhi e premurose alle mani,  in due anni di storia, non ne rammento alcuna.

Solo un mucchio di immagini, diradate dagli anni, nella memoria sostano come in un contrappunto tiepido di lucore, forse impreciso a incastonare i bagliori rossastri di questo ciocco solido d’olivo lento a bruciare che mi sta di fronte.

 

Ed ora, come allora, con un ricordo sparso, il fuoco acceso e un bicchiere pieno, indugio divertito di stupore ad ascoltare ancora la mia musica, con la mia pipa e il fiasco di rosso buono, di botte stagionata e di cantina lievemente fredda, in bilico imperfetto ed indeciso tra l’esistenza e l’essere, tra carne viva ed anima incessante, duttile all’eros e cedevole al logos, sorpreso ancora, senza sgomento o rabbia, d’essere ancora vivo nell’attesa di riprendere l’urto col mondo, schivando femmine e numi, eros e thanatos, ad eludere l’ego sgombro di fatti e colmo di memoria, che a tratti incerti a volte m’assomiglia. 

 

Fuori del tempo e nel tempo, strafottente e guascone, insisto ad essere anima scissa e corpo sparso tra corpi, in questo nuovo anno che i gregoriani dicono sia principiato da poco.

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