In fondo non sto male. Dopo l’iniziale malanimo dovuto al repentino cambio di vita sono riuscita a trovare un mio equilibrio. Credo di essere una buona ospite qui dentro: ogni mattina mi rifaccio il letto da sola, dico sempre grazie e per favore e non faccio storie per il cibo che viene servito. Sono riuscita a stringere anche qualche amicizia.
Essendo ancora autonoma posso uscire dalla struttura per piccole commissioni. In genere faccio sempre lo stesso giro: arrivo fino al Parco Todaro e allungo all’edicola, dove la Signora Carmela, mi lascia il quotidiano del giorno precedente. Certo mi manca la mia casa, le mie abitudini, i miei oggetti. A pensarci bene mi mancano più loro che mio figlio. D’altra parte, perché dovrei sentire nostalgia per qualcuno che mi ha cacciata via?
No, sono ingiusta. L’errore è stato mio. Potevo dire no, e invece mi sono lasciata convincere. A mia discolpa devo ammettere che Andrea è stato abile ad abusare della mia buona fede, ricalcando su quelli che da sempre sono i miei punti deboli.
«Mamma, vuoi davvero che tua nipote cresca senza una casa?»
Senso di colpa.
«Sarei più felice di saperti al sicuro in una residenza per anziani. Non puoi più prenderti cura di te».
Paura.
«So che per vedermi felice faresti qualsiasi cosa»
Eccesso di senso materno.
Una violenza subdola, sottile, travestita da premura che, a poco a poco, ha ucciso la mia volontà. Che madre e nonna sarei stata a negare loro un posto dove stare. Mio figlio precario, mia nuora senza lavoro e con un bambino in grembo. Fuori io, dentro loro. Vivere insieme non era un’opzione contemplata.
Del giorno in cui ho lasciato casa MIA, ricordo solo gli scatoloni addossati alle pareti ed enormi sacchi neri. Tutta una vita buttata lì dentro. Senza rispetto. Mi rivedo inebetita sul divanetto, che a breve sarebbe stato portato via, a fissare il vuoto. Era come se ogni parte di me venisse strappata a morsi.
Quello stato di intorpidimento mi rimase dentro a lungo.
I primi tempi Andrea veniva a trovarmi regolarmente. Non erano incontri lunghi, la mia malinconia lo metteva a disagio. Da quando è nata Nicol, le visite si sono diradate fin quasi a scomparire. Le giustificazioni sono sempre uguali: la bambina che assorbe tutto il suo tempo, gli impegni irrevocabili. Mi sono offerta più volte di andare a trovarli, avrei potuto dare una mano, ma mi sono scontrata con un muro di ostilità.
Quando vado a letto guardo, una per una, le varie cianfrusaglie (le chiamano così le suore) allineate sul comodino.
«Prendono polvere, se ne liberi» mi dicono. Anche loro non capiscono.
Sono foto, oggetti, poche cose che sono riuscita a salvare.
Tra queste, un’immagine di me ragazza; ho lo sguardo gentile, remissivo. Sospiro. Se mi avessero detto che la violenza può essere mascherata d’amore forse le cose sarebbero andate in modo diverso. Se mi avessero detto che anche i figli possono ucciderti l’anima avrei dedicato a me stessa le pagine migliori della mia vita.