Sembravano due persone, forse tre, e un asino con un basto piuttosto pesante.
In ogni caso, lui era nei guai.
Se avesse fatto finta di niente, e li avesse lasciati andare, e se, dopo, fosse successo qualcosa, avrebbe dovuto spiegare perché Gaio Flavio non era con lui. Se invece avesse avuto anche solo il minimo sospetto che qualcosa non quadrasse, avrebbe dovuto condurli all’accampamento – sempre che si fossero lasciati portare senza opporre resistenza – e, ancora una volta, avrebbe dovuto spiegare perché era solo.
Comunque, non aveva il tempo di riflettere: i viaggiatori notturni avevano già superato la curva del sentiero: se ne distinguevano nettamente le sagome. Come previsto, un asino carico, un uomo e – questa sì che era una sorpresa – una donna, almeno a giudicare dall’abbigliamento.
Quinto intimò ad Argulus di fare silenzio, li lasciò avvicinare ancora un poco – sembrava che non l’avessero visto, quindi forse non erano ribelli, altrimenti sarebbero stati più guardinghi – e uscì dall’ombra della casupola, lasciando cadere il mantello e reggendo la lancia con una mano. Sperando di apparire abbastanza minaccioso e abbastanza sicuro di sé, come se potesse contare su una guarnigione nascosta nel buio, intimò: «Fermi, nel nome di Roma!».
La donna (sì, era proprio una donna) emise un verso strozzato e l’uomo sobbalzò. Reggeva un lungo bastone da viaggiatore, ma non sembrava armato.
In teoria, a questo punto, l’altro soldato di guardia avrebbe dovuto andare a prendere una lucerna nascosta nella casupola e, insieme, avrebbero dovuto perquisirli, ma, in pratica...
«Chi siete, da dove venite, dove andate e perché e che cosa portate con voi» inquisì, sforzando gli occhi alla luce delle stelle. L’uomo era abbastanza maturo e sembrava effettivamente disarmato, la donna era poco più che una bambina. Ebrei, senza dubbio.
Argulus sgusciò tra le gambe di Quinto e iniziò ad annusare quelle dell’uomo e della donna, per poi dedicarsi alle zampe dell’asino. Non ringhiava più. Anzi, ogni tanto scodinzolava. Meglio così. Se c’era un qualche pericolo, il cane l’avrebbe percepito meglio di Quinto stesso, tuttavia...
«Non abbiamo fatto niente, signore. Siamo solo poveri viandanti diretti in Egitto». Giudei, a giudicare dall’inflessione. Parevano proprio innocui. Però...
«Non è quello che ti ho chiesto» ringhiò Quinto. Non glie la contavano giusta. Nessuno va in Egitto di notte percorrendo un sentiero di montagna, se non ha niente da nascondere o se non scappa da qualcosa o qualcuno, come, per esempio, dalla legge di Roma.
Per un attimo, Quinto soppesò l’idea di ammazzarli lì, su due piedi, e di aspettare Gaio Flavio. Al comando, avrebbero detto che avevano avuto dei sospetti su quella strana coppia ebrea, che li avevano fermati, che loro avevano opposto resistenza... e che, soprattutto, tutto era successo un po’ dopo il momento in cui era effettivamente accaduto. Se poi, davvero, i due ebrei non avevano fatto nulla di male... be’, sarebbe stato un eccesso di zelo.
Certo che Argulus si comportava in modo davvero strano.
Ora scodinzolava a tutto spiano, anzi, ogni tanto saltellava pure, come se volesse giocare, o avesse incontrato dei vecchi amici.
Che quei due fossero degli stregoni? Se ne erano visti in giro, ultimamente. Maghi caldei, o persiani. E lui stesso, Quinto, qualche tempo prima, non aveva visto una strana luce, in cielo? Una specie di stella che aveva brillato per qualche tempo e poi era scomparsa?.
«Ti ho chiesto come ti chiami!» ruggì rivolto all’uomo.
L’uomo si ritrasse. «Yoseph» disse «Noi...».
«Veniamo da Betlemme» intervenne la donna.
Quinto Marcello allibì. Un uomo che lascia parlare una donna al posto suo. Aguzzò la vista. Era molto giovane, ma doveva avere un bel caratterino. Presto, molto presto, a giudicare dalla differenza di età, avrebbe dato filo da torcere al vecchio. Intanto si era conquistata la fiducia di Argulus, che le faceva le feste.
«Betlemme» ripeté a propria volta.
Ma certo! C’era stata una spedizione militare, laggiù, qualche tempo prima, forse addirittura una strage, ma si sa come sono le voci... comunque era roba tra ebrei. Che se la sbrigassero tra loro.
L’uomo riprese la parola «Abbiamo nostro figlio con noi» disse «è nato da poco».
Ah già, si diceva che, da quelle parti, Re Erode avesse fatto ammazzare un bel po’ di neonati. Assurdità, pare legate a quella famosa stella. Roba da ebrei, ancora una volta. Quella era una terra strana.
«Un bambino, eh?» fece Quinto «e come mai non si è svegliato, con tutto questo baccano? Dove sarebbe?».
Non ci fu bisogno che gli rispondessero: gli bastò guardare Argulus. Fissava un fagotto sulla sommità del basto e non si muoveva più. Scodinzolava appena, e, sul muso – chi dice che i cani non hanno espressioni non ne ha mai osservato uno sul serio – un’espressione che si sarebbe detta adorante.
Il vecchio legionario avvertì una fitta di gelosia. Il cane non si era mai mostrato così affettuoso con lui. Eppure Quinto lo aveva trovato mezzo morto di fame e ricoperto di zecche in una strada di Alessandria, lo aveva preso con sé e gli si era affezionato.
Il cane aveva ricambiato l’affetto con quella dedizione cieca che solo le bestie conoscono, ma mai, mai Argulus aveva avuto un’espressione intensa come in quel momento, tutto il corpo e il muso e il viso protesi verso il mucchio di stracci sulla groppa del somaro.
Il soldato si avvicinò con cautela al fagotto e, con cautela scostò i lembi della stoffa.
Un bambino. Di poche settimane, o mesi – Quinto Marcello non avrebbe saputo dirlo: non si intendeva molto di neonati.
E dormiva, come se nulla fosse.
Una famiglia. In fuga, spaventata, ma una famiglia. Qualcosa in più delle tre persone che la componevano. Qualcosa che lui, Quinto Marcello detto Grammaticus, legionario romano... (sopporta, cuore!).
«Come si chiama?» chiese indicando il bambino.
«Yeoshua» dissero i due all’unisono.
Quinto annuì cercando di assumere la solita aria burbera, ma senza riuscirci, poi guardò l’uomo e la donna; infine, indicò Argulus, immobile in quella strana posa.
«Be’, pare che a lui andiate a genio e, se va bene a lui...».
L’uomo e la donna tirarono un sospiro di sollievo.
Quinto Marcello si girò di nuovo verso il bambino e gli sfiorò la guancia con un dito.
«Yeoshua bar Yoseph» disse Quinto, poi, passando al latino: «Gesù figlio di Giuseppe. E speriamo che combini qualcosa di buono, nella vita».