Oz aveva un vagone di propositi positivi. Ci voleva molto a prepararli e pochissimo a perderli. Alcuni li lasciava per strada. Altri arrivavano la mattina come i giornaletti della metropolitana. C’era tanta carta straccia ma alcuni erano raccolte letterarie. E quando, girando per casa o per strada, pensava di avere per la testa un capolavoro, un proposito stupendo, piantava tutto e si metteva ad ascoltare “Something Like Happiness” dei “The Maccabees”.
Oz era mezzo matto. Riempiva le giornate con lavoretti e inutilità di ogni sorta. Ascoltare la musica era una di queste. Non gli dava da mangiare ma qualcuno la faceva e la promuoveva quindi nel complesso a qualcuno dava da mangiare. Quindi si, si poteva dire che con la musica effettivamente qualcuno era in grado di campare. Cosa gliene venissi in tasca da questa considerazione lui non l’aveva ancora capito. Oz era un po’ svitato. Ma forse non se ne era mai reso conto.
Andava per il paese a raccontare di aver vissuto a Londra negli anni del Brit-Pop e che adesso la musica era tutta uguale e si sentiva spaesato. Diceva di aver fantasticato per troppo tempo sull'ennesima reunion dei The Verve, sugli anni ’90, che Noel Gallagher era ormai, purtroppo, un irascibile coglione, noioso quasi quanto un vecchio con l’artrosi e la dentiera difettosa. Era stato a sentire i Blur all’Hyde Park e - Niente sarà mai come allora! – così diceva. Gli acidi sotto la lingua come Richard Ashcroft senza essere Richard Ashcroft. E quel tempo malinconico, minaccioso, che gli stringeva il cuore e lo faceva dormire così bene. I lavoretti che lo impegnavano troppo. Non appagavano la sua sete di far nulla della vita ma gli lasciavano del tempo libero. E a volte pensava fosse già tanto. Anche se non capiva cosa volesse dire “tanto”. E quando ci pensava faceva tutto un ragionamento esistenzialista sull’importanza del tempo libero e l’inutilità del lavoro unito al tempo sprecato, agli anni sfumati e alla fine, quando pensava di aver scardinato il problema, di averlo analizzato nel dettaglio e di essere arrivato ad una conclusione illuminante, si deconcentrava all’improvviso e i ponti del suo discorso cedevano. Crollava tutto, non si ricordava più il filo del ragionamento, il punto di partenza. Come quelle statue di trenta e passa metri di altezza in Afghanistan o in Iraq. Secoli a prendere polvere e cagate di uccello, cinque minuti di dinamite e giù tutto. Non si ricordava più nulla. In quei casi si sentiva un po’ sconfortato. - E si, i computer prima o poi ci sostituiranno del tutto - questo pensava Oz.
Per riprendersi dalla sbornia di pensieri ascoltava altre dieci o quindici volte “Something Like Happiness”, fino alla lobotomia frontale. Riusciva a ripercorrerne ogni passaggio. Imparava le pause, aggiungeva gli strumenti. Sovrapponeva cori improvvisati e cavolate. La assimilava piano, comodamente. La teneva sotto la lingua oppure attaccata al palato come quella volta che aveva provato i funghi allucinogeni con la testa ancorata allo schienale del divano a casa di Otello, uno sciagurato come lui. C’era sempre Londra nella sua testa. Otello, Abbey Road, il clima malinconico, le casette con i mattoncini rossi e tutto il resto. Quel periodo gli ritornava spesso in mente. Era così chiaro da sembrargli quasi concreto. Era a portata di mano ma passato. Impolverato ma ancora pulsante. Quegli anni, Oz, li aveva nel sangue. Doveva essergli rimasto addosso qualcosa. Una specie di dispositivo antitaccheggio che suonava quando ascoltava quella canzone, poi provava a uscire e - Bip! Bip! Bip! - Fermo, hai ancora un po’ di Londra addosso!
Oz andava a raccontare di essere un artista senza fama, che se avesse incontrato una musa avrebbe avuto i capelli strani come la tizia delle Warpaint e si sarebbe chiamata in un modo altrettanto strano con un qualche nome doppio tipo Lara Jane o stringato come Lulu e, nel suo non dire qualcosa di particolare, avrebbe alimentato pensieri su pensieri e vecchi propositi. Ecco che nella mente bacata di Oz ritornano i propositi. Quando arrivava a quel punto finiva sempre nel loop del proposito che diventa passato e si trasforma in ricordo e alimenta un altro proposito destinato a passare. Quello era il momento di pensare a qualcosa di materiale. – Vediamo – pensava Oz – potrei chiamare Mick Jagger e chiedergli se si ricorda di quando eravamo amici negli anni ’90 e lui iniziava un po’ a scendere di popolarità e io lo rincuoravo dicendogli – Dai Mick, su Mick, è solo musica e in fondo ormai tu sei un vecchio gallinaccio – No, non era la cosa giusta da fare. Mick se la sarebbe presa a morte.
- Lasciamo perdere il telefono – pensava Oz passando velocemente in sala. Un’occhiata distratta al pc acceso sul tavolo senza fermarsi. Il tempo di afferrare al volo tre concetti, “sessualità fluida”, “alimentazione gatto”, “Milano-Londra a 9,99€” – Cristo come ci siamo ridotti - Nauseato decide di uscire di casa. Apre la porta, butta un occhio alle macchine parcheggiate lungo la strada. Fa più freddo del previsto. Cambia idea e rientra subito. Mette su “Kamakura”, spegne le luci, si butta sul letto, la ascolta sette volte. Quando ha finito si alza, accende la luce, decide di uscire di casa. C’era un album che durava il tempo esatto di un giro attorno all’isolato. - Ecco, per adesso potrei fare quello, due passi qua fuori ascoltando qualcosa - Oz sapeva che se lo avesse fatto partire quando usciva di casa sarebbe finito appena prima di inserire la chiave nella serratura, una ventina di minuti più tardi. Questa era una certezza.
Per ascoltarlo però doveva trovare le sue cuffie. - Cazzo le cuffie - Oz rientra in casa in fretta. Si avvia a passo svelto verso la sala. Cerca le cuffie. Torna fuori. Chiude per la terza volta la porta. Fa quattro passi – Avrò chiuso la porta? - Torna a controllare. – Cazzo, sono un maniaco disperato – La porta è chiusa. Si allontana e schiaccia play, l’album parte. Il primo pezzo è breve, chitarra acustica e voce leggermente lontana, come se il cantante fosse dall’altra parte della strada. Gli viene in mente che a Lione c’era questo locale dove potevi tirare le freccette e bere birra dalla bottiglia come nei telefilm americani. Sembrava passata un’eternità. Oz adesso ha i capelli bianchi un po’ arruffati e sopra la fronte ha un ciuffo che gli da un che di giovanile e urla - Vecchio! - al pile che indossa. Oz non si veste mai troppo, mette al massimo un pile sopra strati di cotone e poliestere. Simula tempeste di calore, vampate di fuoco sotto le ascelle e geyser lungo la schiena. Testa armi batteriologiche sotto i vestiti, scoppia gli atolli. Bikini e Mururoa. Oz cammina svelto con le cuffie ma senza un obiettivo. Cammina e basta. E quando sta per tornare, quando gira l’ultima curva la strada si butta dritta per qualche centinaio di metri. Sente il sudore precipitare veloce lungo la schiena. Vede una nuvoletta di fumo dalla bocca, qualche stella un po’ appannata. A Lione aveva una terrazza in collina e la sera vedeva la città dall’alto, una distesa di luci che sembravano il riflesso del cielo. Quei quattro passi avrebbero dovuto instillare un’idea, far succedere qualcosa. E invece la testa di Oz era vuota. Cenere e smog. E quando mancava poco all’ultima nota era già quasi davanti al vialetto di casa.
Poco più avanti si era fermata un’auto. Oz l’aveva notata. Scendevano due tizie con le gambe magrissime. Una si accendeva una sigaretta mentre l’altra apriva il bagagliaio. Parlavano a voce alta. Per qualche motivo erano entusiaste. L’altra diceva - Prima di partire per l’Australia avevo un fidanzato che abitava lì dentro - e intanto faceva un cenno alla palazzina di Oz. - Sarò mica stato io? - pensava in fretta Oz che aveva abbassato di due tacche il volume.
Oz stava arrivando al vialetto di casa. La musica era finita da qualche secondo. Le due l’avevano preceduto. Avevano percorso il vialetto e quando era il momento di scegliere la direzione da prendere eccole svoltare verso l’altro lato del cortile. Oz pensava sempre, pensava in fretta ed era sicuro, non le aveva mai viste. In quel complessino di case c’erano tanti vecchi e poca vita. - Chissà chi era il fidanzato di questa - pensava Oz. Cercava la chiave di casa tra la miriade di cavolate che aveva tra le tasche. Sentiva il freddo del metallo sulle dita, l’unto di uno scontrino accartocciato, qualcosa di appiccicoso, forse un fazzoletto usato. Poco più in là si fermava un taxi con un vecchio professore con la barba lunga e la faccia lamentosa - Chissà perché cazzo questo tizio torna sempre in taxi - pensava Oz a voce alta mentre apriva la porta.
Iniziava a sentirsi a disagio col proprio sudore. Oz entra e va svelto verso il bagno. Si butta un po’ di acqua in faccia, si asciuga male. Quindi va in cucina, mette un po’ di acqua a scaldare sui fornelli. Torna in sala. Il computer è ancora acceso sulla homepage di qualche sito. “Sessualità fluida” , “Alimentazione gatti”, “Milano-Londra a 9,99€”. Clicca quest’ultima. Se non è un proposito può essere un inizio, la svolta per qualcosa. O solo un viaggio tappa-propositi. Un inizio diverso. - Si, ma un inizio di che cosa? Pensa Oz, pensa in fretta! - La pagina sfarfalla, qualcosa sta succedendo. Oz va in cucina a controllare l’acqua del tè. E mentre cammina capisce che è giusto così, deve partire adesso, andare via qualche giorno per ricominciare da capo. Fuori si sente il professore sbraitare con il tassista, un cane sbraita più del professore. - E’ un mondo di matti - pensa Oz. - Bisogna cambiare aria, passeggiare contromano, oppure lasciarsi andare e impazzire. E quelle tizie strane, il loro essere entusiaste dal nulla. - Che mondo strano - dice Oz all’acqua calda prima di tornare di là.
Sul tavolo della sala il pc. Lo schermo è nero pesto e non da segni di vita. Il computer è spento. - Cristo Mick Jagger questa volta giuro che ti ammazzo! - grida Oz prima di buttarsi sul letto ad ascoltare un altro disco.