In siciliano i babbaluci (o anche vavaluci, vaccareddi, bugalaci) sono le comuni chiocciole di terra, piccoli molluschi della classe Gasteropoda. Si tratta di animali bizzarri: sono ermafroditi imperfetti, ogni individuo possiede infatti gli organi sessuali maschili e femminili, ma ha bisogno di un altro individuo per accoppiarsi, fecondandolo e rimanendone fecondato. D'inverno vanno in letargo, chiudendosi dentro il guscio e sigillandolo con una pellicola protettiva bianca, che verrà poi forata dall'animale alle prime piogge autunnali. I babbaluci in letargo vengono anche detti stuppateddi o 'ntuppateddi, e sono più pregiati, per le ragioni che vedremo sotto.
Giovanni Meli (Palermo, 1740-1815) fu medico, chimico, filosofo e scrittore in lingua siciliana, in verità più apprezzato all'estero che in Italia, tant'è che edizioni critiche della sua opera sono disponibili in inglese ma non in italiano. In una delle sue Favuli murali (Favole morali), Meli descrive così l'incontro tra due babbaluci[1]:
Purtandusi la casa su la schina
dui babbaluci all'umbra di una ferra,
cu la vucca di scuma sempri china
si ianu strascinannu terra terra
Portandosi la casa sulla schiena
due babbaluci all'ombra di un ferro,
con la bocca sempre piena di schiuma
andavano strisciando raso terra.
Noti in Francia come escargot o petit-gris, i piccoli gasteropodi, a dispetto di sembianze talmente dimesse, sono protagonisti di alcuni capolavori dell'arte culinaria e si suppone posseggano proprietà afrodisiache.
Mia nonna Peppina, la madre di mio padre, univa alla sua sapienza antica di contadina siciliana le capacità di una cuoca impareggiabile. Riporto qui la sua ricetta dei vaccareddi, una vera delizia.
I babbaluci vanno raccolti alle prime luci dell'alba e devono essere lasciati purgare per almeno 24 ore, meglio se per 3 giorni, in un recipiente con un coperchio fermato da un peso e con poca acqua, in modo che possano liberarsi di tutte le feci. Vanno poi sciacquati con cura e posti in una casseruola, coperti appena di acqua senza sale. Raggiunta l'ebollizione, vanno cotti per circa un'ora, con la fiamma bassa, aggiungendo acqua calda se necessario. Scolare, quindi, e sciacquare ancora. Se lo si desidera, togliere gli animaletti dal guscio, aiutandosi con uno stuzzicadenti. Far imbiondire in padella con olio d'oliva un battuto di sedano ed aglio, aggiungere due o tre pomodori, pelati e schiacciati a mano, e i babbaluci. Continuare la cottura per 15 minuti a fuoco lentissimo, aggiungere sale e pepe e, se lo si desidera, peperoncino rosso. Spegnere il fuoco e aggiungere basilico o menta freschi. I vaccareddi sono ottimi tanto caldi quanto freddi.
La stessa ricetta va bene anche per le stuppateddi. In questo caso, tuttavia, non è necessario lasciare gli animaletti a purgare, perché non hanno mangiato nulla per tutta l'estate. Occorre invece rompere la pellicola e fare attenzione che... non scappino.
Anche Giovanni Meli era un uomo bizzarro. Pur non avendo mai preso i voti religiosi, prima di assumere la cattedra di chimica nelle università di Palermo e di Messina, lavorò come medico, stipendiato dall'abbazia benedettina di San Martino delle Scale, a Cinisi. Lì, forse per mimetizzarsi, prese l'abitudine di vestire l'abito talare, cosa che gli valse il soprannome di abate. Attentissimo osservatore, l'abate Meli fu, con Jean de La Fontaine, continuatore di quella tradizione favolistica iniziata con i classici Esopo e Fedro, e proseguita con lo splendido medievale Roman de Renart. Molte di queste favole fanno parte di una tradizione orale che si va spegnendo e cui attingeva a piene mani anche nonna Peppina, splendida raccontatrice di cunti. Nei quattro versi citati sopra, Meli coglie due aspetti antropomorfi dei babbaluci: l'aver sempre la bocca piena di schiuma e lo strisciare raso terra. Per completare la descrizione dobbiamo aggiungere le simpatiche corna retrattili (più correttamente dovrebbero dirsi tentacoli) possedute dai gasteropodi. Dalle nostre parti, un modo scherzoso per dare del cornuto a qualcuno è dire "Avi cchiù corna d'un vaguni i bugalaci" (ha più corna di un vagone carico di lumache). Il suono della parola babbaluci ricorda poi, per assonanza, il siciliano babbi, cioè stupidi, creduloni. Così, i babbaluci divengono, in una metafora di uso comune, persone grette e stupide, schiumanti di invidia per tutto ciò che sopra di essi si innalza, pronti a credere qualunque fanfaluca venga loro raccontata, cornuti, ominicchi o addirittura pigliainculo e quaquaraqà, per riferirci alla classificazione sciasciana [2]. Un'ultima importante caratteristica degli animaletti, sfuggita a Meli, è stata ritrovata nella ricetta di nonna Peppina. Come abbiamo detto, infatti, il coperchio del vaso in cui i babbaluci vengono messi a purgare deve essere fermato con un peso, altrimenti i gasteropodi, facendo leva con le corna, sarebbero in grado di sollevarlo per fuggir via.
A pensarci bene, c'è un che di meraviglioso, nel senso che suscita meraviglia, in questa capacità, condivisa da babbaluci e cretini, di smuovere il mondo facendo leva sulla propria miseria, sulla base soltanto di quanto si crede, solo per aver sentito da fonte che si ritiene degna di fede. Le credenze, infatti, non essendo né vere né false, sono capaci di cambiare il mondo, come osservava il filosofo pragmatista americano William James (1842-1910). E se è vero che "la mamma dei cretini è sempre incinta", allora la meraviglia può trasformarsi in incubo…
[1] Giovanni Meli, Li babbaluci in Favuli murali, in Moral Fables and Other Poems: A Bilingual Anthology, traduzione in inglese a cura di Gaetano Cipolla
[2] Riportiamo qui la bellissima citazione di Leonardo Sciascia, "Il giorno della civetta", Einaudi, 1961:
«Io» proseguì don Mariano «ho una certa pratica del mondo; e quella che diciamo l'umanità, e ci riempiamo la bocca a dire umanità, bella parola piena di vento, la divido in cinque categorie: gli uomini, i mezz'uomini, gli ominicchi, i (con rispetto parlando) pigliainculo e i quaquaraquà […]. Pochissimi gli uomini; i mezz'uomini pochi, ché mi contenterei l'umanità si fermasse ai mezz'uomini… E invece no, scende ancora più in giù, agli ominicchi: che sono come i bambini che si credono grandi, scimmie che fanno le stesse mosse dei grandi… E ancora di più: i pigliainculo, che vanno diventando un esercito… E infine i quaquaraquà: che dovrebbero vivere come le anatre nelle pozzanghere, ché la loro vita non ha più senso e più espressione di quella delle anatre[…]».