All’alba di mercoledì 19 gennaio 1966 un camionista scopre un cadavere abbandonato sul ciglio di un viottolo in terra battuta che da via Corelli, porta in riva al torrente Stura, nella periferia di Torino
«Stavo andando a caricare della ghiaia alla draga di strada dell’Arrivore, quando ho notato qualcosa che assomigliava a un mucchio di stracci - racconta l’autista Pietro Venera, 32 anni -. Mi sono fermato perché avevo bisogno di qualche pezzo di stoffa per pulire i vetri del mezzo».
Sono le 7,30 e c’è la nebbia. A mano a mano che Pietro si avvicina al “cumulo di stracci”, inizia a intravedere un paio di stivali, poi una mano. Fino alla scoperta del cadavere irrigidito dal freddo sull’erba coperta di brina. È una donna, ha le ginocchia piegate e il volto sfracellato. L’uomo corre a chiamare i soccorsi. Arrivano i poliziotti del Commissariato Barriera di Milano, quelli della Mobile e anche i Carabinieri. Il medico municipale dai primi accertamenti fa risalire la morte intorno alla mezzanotte, ma ancora non si conosce l’identità della donna, che indossa un vestito scozzese e una maglietta rossa. Stretta al collo, una catenina di poco valore che induce gli inquirenti a pensare sia servita a soffocarla. Intorno al cadavere non c’è altro, oltre alla pietra che l’assassino le ha scagliato con violenza sul volto, rendendolo irriconoscibile. Nulla nelle tasche del vestito. La borsetta verrà trovata a seicento metri dal corpo, su un mucchio di rifiuti, ma è vuota. Ancora più lontano, in corso Grosseto, ci sono i frammenti di una carta d’identità gettati probabilmente dal finestrino di un’auto in corsa. Facendo proprio il collage di questi pezzetti gli inquirenti riescono a risalire all’identità della vittima. Si chiama Maria Teresa Francese, ha 30 anni e faceva la “vita”.
La sua storia verrà raccontata dall’anziana madre, Domenica Gianoglio. «Siete qui per Maria Teresa? – chiede ai poliziotti che si presentano alla porta -. Entrate, ditemi che cos’altro ha fatto». Nella stanza accanto c’è un bimbetto che gioca. È il figlio di Maria Teresa.
Domenica Gianoglio è un fiume in piena: «Se mia figlia è morta - dice - è per colpa di un uomo, quello che dopo averle promesso di sposarla l’ha abbandonata incinta. Prima di incontralo faceva una vita normale, lavorava in una tabaccheria del centro. Eravamo una famiglia tranquilla. Poi è arrivato lui e Maria Teresa è impazzita. Mio marito quando ha saputo che era una di “quelle” è morto di crepacuore». Dopo essere stata abbandonata, la ragazza lascia il lavoro. Trascorre i pomeriggi in un bar di corso Tortona; la sera raggiunge la zona del Cimitero Monumentale. Non ha amiche e nemmeno ne cerca. Ha uno sfruttatore che la controlla da lontano, ma le volte che non si presenta, le compagne la picchiano perché è una concorrente da allontanare.
Una sera Maria Teresa sviene per il freddo. La soccorre il custode del camposanto che la fa trasportare in ambulanza al San Giovanni. Pochi giorni di convalescenza e Maria Teresa torna al suo angolo.
Resta di nuovo incinta e quando partorisce abbandona la creatura in un Istituto per l’infanzia. Precipita tutto. Una discesa che termina il 18 gennaio. «È venuta al lavoro - racconterà una testimone - Verso le 23 è salita sull’auto di un cliente, ma non so altro».
Dagli esami autoptici gli inquirenti ricostruiscono gli ultimi momenti della ragazza: quasi strangolata in auto con la catenina che ha al collo e gettata svenuta sul viottolo che porta al torrente. Poi l’aggressore va alla draga dove raccoglie la grossa pietra. Torna e gliela fa cadere sul volto, sfracellandoglielo. La polizia individua e interroga lo sfruttatore, soprannominato “Maciste”, un ventinovenne che tempo prima Maria Teresa aveva denunciato per maltrattamenti per poi ritrattare tutto. «Stavo giocando a biliardino con amici - dichiara - Verso le 23 siamo andati a cercarla, ma non c’era e allora abbiamo iniziato a bere».
Passa qualche giorno e si fa avanti una donna che contraddice l’alibi di “Maciste”. Racconta di averlo visto proprio quella notte picchiare Maria Teresa. Rincara la dose e tira fuori la storia di un’altra ragazza, una diciannovenne che lui aveva promesso di sposare. Insieme avevano passato qualche giorno in un casolare della collina ma, alla fine, la giovane intuendo di che pasta fosse, aveva cercato di ribellarsi. “Maciste” allora le aveva spento una sigaretta sulla coscia: «Ricordati, faccio questo, ma sono capace di peggio».
La donna che lo accusa viene minacciata, il “mondo” degli sfruttatori è in agitazione. Ritratta, riprende, viene contraddetta da altre. Alla fine “Maciste” viene arrestato per favoreggiamento con una condanna a sedici anni. Ma la verità su chi abbia ucciso la povera Maria Teresa Francia non si saprà mai.