Ebbene si! La macchina del tempo esiste. Ed io e Francesca ci siamo entrati.
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Luigi ha la mano sulla maniglia della porta: «Il museo è piccolo e si deve entrare scaglionati» ha detto. Ci ha intrattenuto una ventina di minuti con il racconto appassionato delle origini dell'archivio prima e del museo successivamente.
«Noi qui custodiamo vite» dice abbassando la maniglia «Una vita non la puoi mostrare dentro una teca. In una teca tutto diviene un reperto che, per quanto unico o straordinario, non può essere vivo. E noi qui custodiamo vite!» ripete. E apre la porta.
Noi non sappiamo che, superando la soglia, stiamo entrando contemporaneamente in una macchina del tempo e in una cabina di teletrasporto.
Siamo troppo sorpresi dal luogo in cui ci troviamo per avere altri pensieri. Contro ogni aspettativa, non siamo in una grande sala bensì in uno stretto corridoio di cui la parete sinistra è completamente occupata, dal pavimento al soffitto, da un bailamme di cassetti e sportelli di vari tipi di legno.
Nella penombra dell'ambiente immagini luminose di manoscritti, diverse per formato e tipo di scrittura, scivolano sulla superficie di legno in traiettorie differenti incrociandosi senza interruzione. Mentre si muovono sembrano produrre un suono, una sorta di ronzio basso e continuo. Un mormorio di voci diverse, incomprensibili e non distinguibili.
«È il fruscio degli altri» ci dice Luigi «rappresenta ciò che noi non vogliamo vada perduto.» Intanto si avvicina a un cassetto: «È così che abbiamo deciso di custodire le vite.» E lo apre. Sul fondo del cassetto uno schermo si anima. Una voce emerge dal fruscio avviando la macchina del tempo/teletrasporto.
Istantaneamente siamo a bordo di un piroscafo transoceanico nel lontano 1947. In un italiano sgrammaticato ma intenso, infarcito di termini dialettali siciliani e parole pseudo-americane, Tommaso Bordonaro ci parla dell’arrivo in America e delle reazioni a bordo alla vista del nuovo mondo. Ha 38 anni e alle spalle una vita dura. Mentre sul fondo del cassetto, scorrono le immagini delle pagine del suo diario autografo, Tommaso racconta dolorosamente della sua “spartenza” coniando un termine che sintetizza il dolore del suo distacco necessario. «Un termine così potente!» commenta Luigi richiudendo il cassetto.
Torniamo ai giorni nostri appena per un istante. Luigi apre subito un'anta poco più avanti e veniamo rimandati al 1880 nel nord della penisola.
Emilia ci parla attraverso l'epistolario diretto al suo amato bersagliere. È contessa grazie al matrimonio con un vecchio conte combinato dalla madre. Ha poi scoperto che i due erano amanti e con caparbietà, nonostante i tempi, ha ottenuto il divorzio. Il che non ha cambiato molto la situazione dato che una donna per bene, anche divorziata, comunque mai può frequentare altri uomini. Dopo anni di corrispondenza Emilia decide di troncare i rapporti con il bersagliere. Lui però non regge al dolore e si uccide lasciando le lettere che si era impegnato a bruciare e che ora scorrono sullo schermo all’interno dell'anta.
«Un romanzo d'appendice vissuto realmente…» commenta Luigi richiudendo l'anta e avanzando lungo il corridoio.
Il tempo continua a contrarsi e a espandersi mentre ci teletrasportiamo in molti altri luoghi ed epoche spinti dai cassetti aperti. Siamo emozionati e travolti da un'esperienza inaspettata e coinvolgente che ci suggestiona completamente.
«Il museo è piccolo. Quindi potrete domandarvi come mai su quattro ambienti due sono riservati a due sole vite…» Luigi sorride fermo davanti a una porta “Questi due sono pezzi da novanta!”
Entriamo nella prima stanza. La stanza ci vede e si attiva.
Al centro c’è una scrivania di legno vuota ad eccezione di una Olivetti Lettera 22 sulla sinistra del piano. Alcuni tasti si accendono, illuminati dall’alto, simultaneamente al rumore della battuta e all’apparire della lettera corrispondente sulla superficie della scrivania. Luigi tocca la scrivania.
Vincenzo appare sul muro dietro la macchina da scrivere e dichiara che, pur essendo “Inalfabeto”, ha deciso di scrivere la storia della sua vita cominciata male nel 1899, proseguita peggio ma con tanto da raccontare.
Vincenzo Rabito ne ha davvero da raccontare. Un giorno, a quasi settant’anni, decide di usare a questo scopo la lettera 22 chissà da dove uscita. Per due anni lotta con la macchina lettera per lettera, parola per parola. “questa; e; la; bella; vita; che; ho; fatto; il; sotto; scritto; …”
Inizia così un’opera incredibile di milleventisette pagine a interlinea zero e senza margini che attraversa settant’anni di storia italiana vissuta sulla pelle. Usando con metodo un punto e virgola per dividere le parole.
«Il cantoniere Rabito è stato un vero caso letterario» sottolinea Luigi con orgoglio «L’autobiografia è stata pubblicata nel 2007 da Einaudi con il titolo di Terra matta e il suo linguaggio unico, a metà tra il siciliano e l’italiano orale, si è meritato il neologismo di rabitese.»
E’ ora di cambiare stanza. «Qui c’è l’unico originale. Capirete perché.» annuncia Luigi.
Ci spiega che Clelia è venuta personalmente dalla provincia di Mantova a 74 anni con la sua vita sottobraccio. «Contadina, due soli anni di elementari, una vita di lavoro e l’amore per il marito conosciuto a 14 anni» Luigi ne parla come di una persona di famiglia «Un giorno le dicono che il marito è stato investito ed è morto. Il suo mondo finisce e deve tenere la testa occupata per non impazzire. Scrivere la aiuta, specialmente la notte.»
Luigi non apre la porta e continua: «Ma una notte in tutta casa non c’è un pezzo di carta. Clelia rischia di uscire di senno. Ma trova la soluzione.» Luigi sembra commosso. Apre la porta e aggiunge solo «Beh… dovete vederlo!»
Nella stanza le luci sono basse. Tutta la parete di fondo è occupata da una teca di cristallo in cui l’intera vita di Clelia Marchi è annotata su un lenzuolo matrimoniale decorato da nastri rossi. 185 lunghissime righe, scritte a mano e numerate, ne ricoprono la larghezza dalla cima al fondo
“1: Care Persone Fatene Tesoro Di Questo Lenzuolo Chè C’è Un Pò della Vita Mia; è Mio Marito;…”
In cima anche il titolo: Gnanca na busia (Neppure una bugia).
Restiamo lì ad ammirare quel capolavoro ingenuo e splendido. «Si è ricordata che la maestra raccontava che i “Truschi” seppellivano i morti avvolti da lenzuoli scritti. Anche lei poteva scrivere il suo miglior lenzuolo dato che non avrebbe più potuto consumarlo con il suo amore...» sussurra Luigi.
Usciamo con riluttanza. Fuori c’è il tempo ordinario. Fuori c’è la vita solita.
Ringraziamo Luigi, e torniamo all’auto parcheggiata accanto al cartello che recita “Pieve Santo Stefano – Paese dei diari”.
Il sole tramonta alle nostre spalle e crea strani giochi di luce sullo specchietto interno. Mi pare di intravedere qualcosa sui sedili posteriori.
Dopo essere stati nel loro tempo, mi fa piacere pensare che Tommaso, Vincenzo e Clelia vogliano viaggiare un poco con me e Francesca.