Avevo da poco terminato il servizio militare e, nell'attesa di trovare un altro impiego, due volte a settimana, per trenta euro giornaliere andavo a lavorare al mercato, in ambito abbigliamento, con mio cugino Mariano e con i miei zii.
Non si trattava di un lavoro particolarmente faticoso, sennonché dovevo alzarmi alle cinque del mattino, non vergognarmi ad abbanniare, cioè a urlare per attirare l'attenzione dei passanti al fine di reclamizzare la merce esposta, e mostrare una faccia tosta nel mercanteggiare con determinate tipologie di persone, tra cui gli indecisi e gli schizzinosi.
In proposito, visto che non ero un modello di baldanza, ma soprattutto non ero competente di brand o marche, capitò un episodio memorabile.
Una mattina, un'attraente ragazza bruna, nel tastare alcuni pantaloni, mi chiese un'informazione.
«Scusami, ho notato che siete sprovvisti di jeans Inblu, quando vi arrivano?»
«Ti sbagli, guarda quanti jeans in blu ci sono lì!» le risposi strizzando l'occhiolino e indicando con la mano una delle bancarelle.
La giovane sorrise, per poi dirigersi verso mio cugino, che in quel momento stava piegando un ammasso di vestiti, e mettersi piacevolmente a parlare con lui.
Essendo una cliente fissa, non mi stupii della loro confidenza, tuttavia mi accorsi con un certo fastidio che mi deridevano a bassa voce.
Una decina di minuti dopo, Mariano mi raggiunse e, con un'aria canzonatoria, mi diede una pacca sulla spalla.
«Ehi, minchione, Inblu è un marchio.»
«Che figura!» esclamai.
«Sai cosa mi ha detto quella gnocca di te?»
«No, cosa?» gli domandai strabuzzando gli occhi.
«Quel ragazzo è bellino, peccato che è un po’ cretino.»