Dieci anni fa sono andata in pensione e mi sono trasferita sull'altopiano, in una casetta di pietra carsica.
Ogni giorno, se il tempo è buono, prendo il bus delle 8:37 e scendo allo stagno. Mi siedo sulla panchina, guardo gli alberi e il cielo, ascolto il canto degli uccelli, faccio una passeggiata.
L'altro ieri sull'autobus sale una donna e si siede difronte a me. Puzza di fumo. Indossa larghi pantaloni a righe gialle e rosse e una maglietta viola che lascia scoperte le grosse braccia coperte di peli scuri. Sembra un pagliaccio, il largo volto solcato da gocce di sudore, rossetto arancione, linea nera sulle palpebre. Scende anche lei al laghetto e va a sedersi sulla panchina. Io proseguo per il sentiero nel bosco. Dopo qualche minuto sento la ghiaia scricchiolare. Mi giro. È lei.
“Ieri è morto Dick”, dice.
“Scusi?” Chiedo io.
“Il cane”, risponde quella.
“Mi dispiace”, dico, e continuo a camminare.
La donna mi tiene dietro. Ansima, tira fuori dalla tasca dei pantaloni un fazzoletto, si deterge la fronte. Incrociamo un uomo con un pastore tedesco al guinzaglio. La donna lo accarezza, il cane ringhia. Il padrone si scusa, strattona il cane, riprende la passeggiata. Lei si mette a piangere. Il moccio cola sulle labbra, sul mento. Lei lo pulisce con la lingua bianca, grossa. Sembra un verme che si agita prima di crepare. Torno verso la fermata dell’autobus. Lei mi segue. Io accelero il passo. Acchiappo il bus al volo mentre le porte si chiudono davanti alla donna. Lei rimane alla fermata e si mette a sventolare il fazzoletto. Faccio un cenno di saluto e mi lascio andare sul sedile riservato agli anziani.
Ritorno al laghetto la mattina dopo. La donna è sulla panchina, fuma una sigaretta. Mi corre incontro, sorride.
“Aspetto un cagnolino”, dice.
“Ah, bene”, commento io.
“Venerdì pomeriggio un amico del CSM me lo va a prendere al canile”.
“Perfetto”.
“Appena arriva offro da bere”.
“Bene”.
“È invitata anche lei”, dice.
“Grazie”.
“Ci verrà?”
“Non lo so. Vedremo”, rispondo, e riprendo a camminare.
“Signora signora”, urla quella.
Mi fermo.
“Come si chiama?” Chiede lei.
“Paola”.
“Piacere. Io sono Lucia”, dice, e spegne la sigaretta sul bordo della panchina.
“Mi fa compagnia?” Chiede.
“Preferisco fare quattro passi all’ombra”, rispondo.
“Io rimango al sole. Per la vitamina D”, dice lei.
“Eh, sì, ha ragione, il sole fa bene per la vitamina D”, borbotto, e continuo per la mia strada.
Sabato mattina fa troppo caldo per la passeggiata. La rimando al tardo pomeriggio. Arrivo al laghetto che sono passate da poco le sette. Non c’è nessuno, l’afa è pesante. Mi siedo sulla panchina e mi metto a leggere una rivista.
“Signora, posso?” Sollevo lo sguardo. È un uomo anziano, barba lunga, occhi velati dietro le spesse lenti da miope. Tiene un bastardino al guinzaglio. Il cane mi annusa le scarpe, indugia sul fondo dei calzoni.
“Dica”, faccio io.
“Lei è l’amica di Lucia?”
Il cane appoggia le zampe sulle cosce. Mi scosto.
“Lucia… La padrona di Dick?” Chiedo.
Quello trattiene il bastardino.
“Sì”, risponde.
“Proprio amica non direi, l’ho incontrata giorni fa per la prima volta”.
“Però Lucia l’aveva invitata alla festa per l’arrivo di Dickdue, vero?”
“Si”.
“Allora venga”.
“Dove?”
“Alla festa”.
“No, grazie, scappo a casa. Sta per arrivare un temporale. Li sente i tuoni?”
“È all’osteria, quella sulla piazza, sotto la tettoia”.
Lo seguo. Entriamo nel giardino. C’è un sacco di gente. Una donna su una pedana di legno canta Have you ever seen the rain. Quando finisce, un lungo applauso. Il vecchio si soffia il naso.
“A Lucia piaceva tanto, dice l’uomo”.
“Piaceva?”
“Sì”.
“Mi scusi… Ma Lucia dov’è?”
“In Paradiso”.
“Dove?”
“È morta”.
“Sta scherzando?!”
“No”.
“Ma… Allora… La festa… Perché questa festa?” Chiedo.
“Per Dickdue”, risponde lui.
“Mi scusi, non capisco”. Dico io mentre una donna vestita di nero mi offre un calice di frizzantino.
“Dickdue se l’era preso un ragazzetto. Per la povera bestia è meglio così, avevano detto quelli del canile. Lucia è tornata a casa e si è impiccata”.
Butto giù un sorso di spumante. Scuoto la testa.
“Mi dispiace tanto, tantissimo. Era così felice del nuovo arrivo…”
Il cagnolino riattacca ad annusare le scarpe. Lo accarezzo.
“Come si chiama?” Chiedo all’uomo.
“Dickdue”.
“Dickdue?”
“Sì, Dickdue. Il ragazzetto ha cambiato idea”.