Guardare i miei figli e mia moglie e vedere nei loro occhi disprezzo era diventata ormai un'avvilente abitudine. Eppure tutta la vita l'avevo dedicata a loro e al lavoro. Già, il lavoro, la mia azienda, frutto di tanti sacrifici e rinunce, ma anche di tante soddisfazioni, come quella di realizzare le proprie idee.
Purtroppo, le cose non erano andate come speravo. Tutto quello che ricavavo, a parte una piccola parte necessaria per il sostentamento della mia famiglia, lo reinvestivo nell'azienda. Per me era necessario veramente poco. Mi spostavo per lo più in bicicletta, le vacanze erano sempre più rare, e il lavoro aveva lentamente preso il controllo di ogni aspetto della mia vita.
Per lunghi anni sembrava che tutto potesse andare per il meglio. Poi iniziarono i problemi. All'inizio erano piccoli inciampi: un creditore che ritardava i pagamenti, un leggero calo nelle vendite... situazioni normali, pensavo, nella vita di un'azienda. Ma poi, venni a conoscenza di un bando statale per ottenere finanziamenti a fondo perduto destinati alle aziende che investivano nella propria attività.
Mi sembrava un'opportunità unica. Pensai che, con quei fondi, avrei potuto affrontare le spese di innovazione che mi ero prefissato. Investire in nuove tecnologie avrebbe reso l'azienda più competitiva. Iniziai a predisporre la domanda, ma mi resi subito conto che il processo era più complesso del previsto. C'era bisogno di una marea di documenti, progetti e relazioni, e per questo dovetti affidarmi a una schiera di professionisti. Ciascuno di loro, ovviamente, pretendeva parcelle esorbitanti, giustificando il tutto con la scusa che, "tanto ti finanziano a fondo perduto, no?".
Il lavoro intenso che ne derivò mi distrasse dalla gestione quotidiana dell'azienda, provocando un calo del fatturato. Ma ero convinto che ne sarebbe valsa la pena. Quando finalmente la domanda venne accettata, procedetti con gli investimenti, chiedendo anche un prestito ponte alla banca per coprire le spese immediate.
Poi arrivò la prima mazzata. L'ente che doveva erogare i fondi mi informò che, a causa dell'esiguità del bilancio, il contributo sarebbe stato ridimensionato. Non mi scoraggiai troppo; avevo messo in conto qualche intoppo. Ma poco dopo arrivò la seconda mazzata: i tempi di erogazione dei fondi erano incerti, e nel frattempo continuavano a richiedermi integrazioni di documenti. Ogni aggiornamento mi costava nuove parcelle, e presto mi dovetti recare nuovamente in banca per chiedere un ulteriore prestito per far fronte agli interessi del primo.
La porta a vetri della banca si aprì con un sibilo meccanico, varcai l'ingresso con un buco allo stomaco che mi accompagnava ormai da settimane. L'aria all'interno era fredda, sterminata come quella di un magazzino, e sapeva di carta, inchiostro e formalità. Gli impiegati seduti dietro i loro banconi si muovevano con una lentezza metodica, come se fossero avvolti da una routine che non ammetteva alcuna fretta. Ogni movimento sembrava una cerimonia, una rituale conferma del potere che avevano su chi, come me, era lì per chiedere un favore.
Mi avvicinai alla postazione dell’impiegato con cui avevo già trattato in passato. Mi sentivo a disagio, come un ragazzino che si prepara a chiedere una proroga su un compito non consegnato. Indossavo il mio vecchio completo, quello che avevo utilizzato nelle riunioni importanti, ma ora mi sembrava solo un triste ricordo di un passato in cui le cose andavano meglio. L’usura sui polsini e il tessuto leggermente lucido all’altezza delle spalle mi ricordavano che da tempo non potevo permettermi un abito nuovo.
«Buongiorno, dottor R. », disse l’impiegato senza alzare lo sguardo dallo schermo del computer. La voce era educata, ma priva di calore. Un tono neutro che sapeva di distacco professionale, lontano anni luce dai primi incontri, quando ero un cliente stimato, un imprenditore di successo che la banca era felice di sostenere.
«Buongiorno», risposi, cercando di mantenere un tono fermo, anche se dentro mi sentivo vacillare.
L'impiegato finalmente sollevò gli occhi, ma non c'era traccia di empatia. Erano occhi abituati a vedere la gente entrare e uscire con richieste, occhi che giudicavano con la precisione di una bilancia invisibile. «Immagino che sia qui per la questione del prestito, giusto?»
Annuii lentamente. Era il secondo prestito che chiedevo nel giro di pochi mesi. Sapevo che questo mi metteva in una posizione scomoda. La banca, un tempo disposta a concedermi fiducia, ora sembrava scrutare ogni mossa con sospetto.
«Purtroppo, come le avevamo già accennato, i tassi di interesse sono saliti», continuò l'impiegato, cercando di rendere la notizia più digeribile. Ma le parole sembravano macigni che cadevano sul tavolo. «Non possiamo offrirle le stesse condizioni di prima. La situazione è cambiata.»
L'impiegato iniziò a digitare qualcosa al computer, facendo scorrere lentamente una serie di dati sullo schermo. Ogni clic era un colpo al cuore , cercai di mantenere la calma. Avevo sempre riposto fiducia in quel luogo, convinto che la banca fosse un partner, ma ora mi sentivo come un uomo in balia della corrente, trascinato inesorabilmente verso la rovina.
L’impiegato stampò alcuni documenti e li fece scivolare lentamente sul bancone. «Se è d’accordo, qui c’è la proposta. Naturalmente, vista la sua storia con noi, abbiamo cercato di offrirle condizioni più favorevoli rispetto a quelle standard.» Era una pietosa menzogna.
Presi i fogli, li osservai per qualche secondo senza leggerli davvero. Le cifre erano lì, brutali e inesorabili. Il tasso d’interesse era decisamente più alto rispetto al passato, e le rate si sarebbero mangiate gran parte delle entrate residue dell’azienda. Ma cosa potevo fare? Rifiutare significava condannarsi al fallimento immediato, accettare significava probabilmente solo rimandarlo.
«Va bene», dissi infine con un sussurro.
«Perfetto. Allora, può firmare qui e qui», indicò l’impiegato, già con la penna in mano, pronto a chiudere quell’operazione che per lui era solo una delle tante.
Mentre apponevo la firma, sentii un vuoto crescere nel petto, come se ogni tratto di penna mi stesse avvicinando sempre di più a un precipizio da cui non sarei più potuto tornare indietro.