Il sole, in punta di piedi, si infilava tra le tende quella mattina, timido ma abbastanza deciso da risvegliare la casa. Era primavera, e l’aria portava con sé quel tepore sottile che promette giornate più lunghe, leggere. Mi ero alzato prima degli altri, come sempre, e dalla cucina sentivo i primi suoni di vita nelle stanze. Mia moglie si stiracchiava ancora nel letto, mezza addormentata, mentre i passi leggeri di nostra figlia di sedici anni riecheggiavano per la casa. La sua energia era quella tipica di chi, alla sua età, si prepara a conquistare il mondo, un giorno alla volta.
Ci sedemmo tutti insieme a fare colazione. Era una di quelle abitudini semplici, quasi banali, che sanno di normalità, e che spesso diamo per scontate, non rendendoci conto che sono il vero fondamento della nostra vita. Salutai mia moglie con un bacio leggero e accompagnai nostra figlia a scuola. Lungo la strada verso l’auto, il profumo dei fiori appena sbocciati riempiva l’aria, e io respiravo a pieni polmoni quella nuova energia. La primavera stava inondando la città, e il futuro mi sembrava luminoso. Ero convinto che tutto sarebbe andato per il meglio.
Mia moglie ed io ci eravamo dati appuntamento per pranzo. Era il nostro piccolo rituale, una pausa che aspettavo sempre con piacere, un momento in cui il tempo sembrava rallentare, facendoci sentire di nuovo noi due, come all’inizio. Ma prima di allora, dovevo occuparmi dei lavori al negozio. La mia attività era ferma da un mese a causa della ristrutturazione, ma i lavori erano quasi finiti. Mentre pulivo il pavimento, immaginavo il giorno in cui avrei potuto finalmente riaprire e ricominciare a lavorare.
Poi, il telefono vibrò. Era il geometra. "Dobbiamo vederci nel pomeriggio," disse. "Gli uffici comunali ci hanno contattato, c’è qualcosa di urgente. Alle cinque va bene?"
Alle cinque in punto ero davanti agli uffici comunali, insieme al geometra. Parlammo poco lungo il tragitto, solo qualche scambio di battute formali. Entrammo e ci dirigemmo al desk 110, dove ci avevano detto che avremmo trovato l'Architetto M. Lo trovammo seduto, il capo chino su una pratica, perso nei suoi documenti. Intorno a lui, due pile di faldoni si ergevano come una fortezza burocratica. Non ci degnò nemmeno di uno sguardo mentre ci avvicinavamo.
Il geometra prese la parola per primo, con la sua solita formalità. "Buongiorno, Architetto M.," disse. "Io sono il Geom. Rossi e questo è il signor G., proprietario dell’immobile. Può spiegarci il motivo della convocazione?"
L’architetto, senza alzare gli occhi, iniziò a digitare qualcosa sul computer, con movimenti veloci e meccanici. Poi, finalmente, fermò le mani sulla tastiera e incrociò le dita sul tavolo, come a segnalare che era pronto a parlare.
"Stavamo rivedendo i documenti relativi alla vostra pratica di ristrutturazione," iniziò con un tono piatto e professionale, "quando ci siamo accorti di un'anomalia nelle piantine catastali del vostro immobile." Fece una pausa, come se stesse scegliendo accuratamente le parole da dire, o forse per creare una tensione. Io già sentivo una sensazione di disagio crescere dentro di me.
"Nelle piantine catastali," continuò, "risulta che il muro perimetrale sul lato nord è perfettamente dritto, ad angolo retto rispetto alla strada." Fece un'altra pausa. Guardai il geometra, cercando un segnale che mi dicesse che non era nulla di preoccupante, ma il suo sguardo era diventato improvvisamente serio.
"L’anomalia," riprese l'architetto, "sta nel fatto che, nello stato di fatto presentato, il muro appare inclinato, da un’estremità all’altra, di circa dieci centimetri."
Dieci centimetri. Il numero mi parve insignificante, quasi ridicolo. Mi scappò un sorriso nervoso. Ma dall’espressione dell'architetto capii che non c’era niente di ridicolo in quello che stava dicendo.
"Questo cosa comporta?" chiese il geometra, senza distogliere lo sguardo dall'architetto.
"Comporta," disse l'architetto, con un tono stanco e rassegnato, "che si configura un aumento di superficie utile, e quindi, di fatto, un abuso edilizio."
Quelle due parole – abuso edilizio – si schiantarono nella mia mente come un macigno. Sentii un brivido gelido corrermi lungo la schiena. "Ma quel muro è sempre stato così," replicai, la voce rotta dalla tensione. "Nessuno ci ha mai messo mano!"
L'architetto alzò per la prima volta lo sguardo, senza traccia di empatia. "Dovrete dimostrarlo," disse seccamente, "con prove documentali."
La mia mente iniziò a correre. Prove? Ma come si dimostra che qualcosa non è mai cambiato? Che quel muro è stato lì immobile per decenni, senza mai essere toccato? Le parole dell'architetto mi parvero distanti, quasi irreali.
L'architetto si accomiatò frettolosamente, e io e il geometra restammo soli. "Devo fare delle ricerche," disse il geometra, cercando di apparire calmo. "Cercherò di trovare documenti che possano aiutare, ma... ci sarà quasi sicuramente una segnalazione alla magistratura."
Segnalazione alla magistratura? Mi girai di scatto verso di lui, incredulo. "E cosa comporta?"
"Beh," sospirò, "potrebbero sigillare il cantiere, bloccare i lavori, e... probabilmente dovrai difenderti in un'azione legale."
Il resto della giornata scivolò via come in un sogno, ma il mattino successivo, la realtà mi colpì duramente. Bussarono alla porta: due vigili urbani, impassibili. "Siamo qui per mettere i sigilli al cantiere."
Li seguii, impotente, mentre chiudevano tutto. Quella vista mi spezzò. Sentivo che qualcosa dentro di me si stava sgretolando. Uno dei vigili mi porse una busta. "Ordine di comparizione."
Non era più solo una questione di un muro storto. Era l'inizio della mia caduta.