I giorni seguenti si susseguirono come in un vortice, e io mi sentivo risucchiato da una spirale di eventi che non riuscivo più a controllare. Ogni mattina speravo in una buona notizia, ma non arrivava mai. Al contrario, ogni chiamata del geometra portava con sé nuove complicazioni, nuove irregolarità da sanare, nuovi ostacoli. Il muro era diventato un simbolo, il simbolo di un errore minuscolo che si era trasformato in un mostro burocratico.
"Abbiamo un problema," mi disse una mattina al telefono, con un tono che ormai avevo imparato a temere. "Ci sono altre irregolarità... Pare che la pavimentazione non rispetti le norme antisdrucciolo. E i vetri non sono a norma."
Ricordo che quella notizia mi colpì come un pugno in pieno volto. "Norme? Ma... sono sempre stati così! Io non ho cambiato nulla!"
"Non importa," replicò freddamente il geometra. "Senza le certificazioni, non possiamo dimostrarlo. Dobbiamo far eseguire i test, mettere a norma il tutto."
Test. Modifiche. Altre spese. Spese che non potevo permettermi. Negli ultimi mesi avevo solo versato soldi senza vedere un centesimo di guadagno. Le fatture degli artigiani, le parcelle dell’avvocato, del geometra... Ogni giorno, l’ombra del debito si allungava su di me, e con essa il peso dell’impossibilità di uscirne.
Una sera, stremato, dimenticai persino di andare a prendere mia figlia a scuola. Mi chiamò mia moglie, preoccupata, chiedendomi dove fossi. Ma io non avevo una risposta. Non sapevo nemmeno più dove mi trovassi io, dentro tutto quel caos.
Con il passare dei giorni, iniziai a evitare di tornare a casa. Ogni volta che attraversavo la porta, sentivo la pressione silenziosa negli occhi di mia moglie, che mi scrutava in cerca di risposte che non sapevo darle. E mia figlia... La sua dolcezza, la sua innocenza mi laceravano. La sua domanda sempre più insistente: "Papà, cosa succede? Quando riaprirà il negozio?"
Non avevo il coraggio di dirle la verità. Non volevo che vedesse suo padre crollare, come il muro che aveva dato il via a tutto. Così, iniziai a frequentare bar, a bere un bicchiere di vino dietro l’altro, sperando che quell'intorpidimento potesse darmi una tregua, almeno per un momento.
La situazione a casa si deteriorò rapidamente. Mia moglie mi affrontò una sera, il volto segnato dalla preoccupazione. "Non possiamo continuare così," mi disse. "Devi reagire, devi trovare una soluzione, per noi... per nostra figlia."
Ma io non riuscivo a reagire. Ero intrappolato. Ogni passo che facevo mi sembrava portare solo più a fondo. Così, quando mi disse che voleva la separazione, non mi opposi. Sentivo che, in fondo, era giusto così. Era giusto che lei e nostra figlia avessero una possibilità di vivere una vita normale, senza essere risucchiate dal vortice in cui mi trovavo. Non le coinvolsi nella mia caduta. Mi allontanai, convinto che fosse l'unico modo per proteggerle.
Mi trasferii nel retro del negozio, dove c’era un piccolo sgabuzzino. Dormivo su un vecchio materasso appoggiato a terra, e il soffitto basso mi dava una sensazione claustrofobica, come se stessi vivendo dentro la mia stessa mente, chiuso, senza via d’uscita. Le notti erano interminabili, silenziose, rotte solo dal ronzio della mia testa piena di pensieri insopportabili.
Col passare dei giorni, non uscivo quasi mai. Ero sprofondato in una solitudine asfissiante, e mi accorgevo che qualcosa in me stava cambiando. La rabbia, la frustrazione, la sensazione di impotenza si erano trasformate in una stanchezza profonda, una stanchezza dell’anima. Non provavo più nulla. Era come se il muro storto, quella dannata parete, si fosse trasferito dentro di me, facendo crollare tutto ciò che ero stato.