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Mi sento inutile, colma del mio tutto e vuota delle caratteristiche dell’essere. Mi vorrebbero bruciare, probabilmente per il mio essere diversa. Eppure vesto in modo dimesso, con un completo informe, grigio, dalla castissima ispirazione stile radical chic. Non indovino i pensieri dei compagni di sventura che s’assiepano a me, quasi a regalarci una mutua speranza in mancanza di meglio: sono muti, pensierosi, mutangheri. Due giorni fa tutto mi sembrava differente: ero nelle mani di Peppino, che mi alimentava con un certo trasporto. Mi bastò vederlo una volta per innamoramene. Vestiva con un jeans sdrucito che mascherava (lo sapevo!) gambe muscolose. Il maglione giallo limone gli dava un’aria solare che sentii di non meritare. Era come contemplare un demiurgo di periferia, completamente in sua balia. “Assuntì, vieni accà, ca c’avimm’a spiccià.” fece la sua melodiosa voce. Assuntì non godeva della stessa simpatia, anche se le riconoscevo il ruolo istituzionale di moglie di Peppino. Che fosse infida lo avevo percepito il giorno prima, quando aveva fatto gli occhi dolci al garzone del macellaio. Occhi di brace, occhi di lupa! Che cosa si fossero detti, dieci minuti dopo in camera da letto, faceva parte delle mie congetture più pruriginose. Certo non era la gelosia a farmi pensare che Assuntì non fosse capace di dialogare: i mugolii disarticolati provenienti dal talamo non testimoniavano in tal senso. “Mo vengo, semp’ ‘e furia” replicò la donna. “Assuntì, quante storie. E meno male che ci sono io” “Seee, meno male” sottolineò ironica, passandosi le mani tra capelli scarmigliati. Aveva un’aria accaldata che il marito doveva trovare molto desiderabile. Sicuramente non era il solo a fare quel tipo di considerazione, pensai tra me mentre mi lasciava. La prospettiva del mio mondo cambiò radicalmente: ero a terra, senza che nessuno badasse a me, con i due che si avviavano nella camera da letto. Con la stessa naturale complicità del giorno prima, con il solo attore maschile cambiato. I mugolii sembrarono gli stessi, a occhio e croce. Fui colta da una fitta di gelosia: mi rividi piena e informe e osai paragonarmi per un secondo alla boccaccesca procacità di Assuntina. Non reggevo il paragone, dovetti ammetterlo. Rotolai in un angolo, sedotta e abbandonata. Una parte di me borbottava, forse memore degli avanzi della cena della sera prima. Scherzi del cibo. Riemersero un’oretta dopo, accaldati entrambi e con un luccicore perso in fondo agli occhi. Ovviamente non mi degnarono di uno sguardo: come avrebbero potuto distogliere la loro felicità per farlo? Mi sentii uno scarto. Gli eventi precipitarono nel pomeriggio. Venni presa senza affetto e messa all’addiaccio, oltraggiosamente data in pasto al lurido abbraccio di tanti miei simili. Salutai per l’ultima volta il posto che, in un certo senso, mi aveva visto nascere. Senza una parola né una lacrima: so che non li rivedrò. Michelino, un mio simpatico vicino, mi ha rivelato un segreto: “Bella, qui staremo per mesi!” “Dici?” “E se ci portassero via passeremmo solo dalla padella alla brace. Si narrano cose strane… Ogni tanto un gruppetto di noi finisce arrosto. Non ci vogliono, anche se noi siamo loro, in fondo.” “Sicuro?” “Si, me l’ha detto Geronte il più anziano del rione.”
Buttai un’occhiata di compatimento al vecchio sacco di libri e giornali che mi rispose con un sorriso di simpatia incrociata. In fondo ero come lui, meno nobile forse, ma sempre una grigia, ipertrofica busta di monnezza.
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