In seguito mi stupii di come con una sola occhiata gettata dal mio tavolo, che non era così vicino al bancone, avessi potuto scorgere tanti dettagli su quell’uomo, e provare un senso d’inquietudine, ancora prima di averlo avuto vicino. Dal momento in cui era comparso poi, il senso di angoscia e inquietudine che avvolgeva il Can Can, era aumentato esponenzialmente, raddensandosi a un livello tale che, non facendo troppa attenzione a quel che facevo, in quanto distolto da ciò che mi accadeva attorno, ne tagliai una porzione e me la misi in bocca insieme col pasticcio di zucchine e formaggio. Fu un boccone molto amaro da mandare giù, e dovetti bere dell’altro vino, tutto quello che avevo nel bicchiere.
Continuavo a osservare l’uomo cercando di non farmi notare, come avevo imparato a fare dai cani. La prima cosa che aveva fatto, uscendo dalla cucina, era stata dirigersi verso la spina e farsi un bicchiere di vino bianco. La ragazza, che nel frattempo era diventata una tredicenne, gli si era avvicinata subito, e si era messa ad asciugare alcuni bicchieri molto vicino a lui, appoggiandogli contro il braccio, esibendo un legame che avrei compreso solo più tardi. Lui le parlava a bassa voce guardandosi intorno, facendo dei cenni con la testa prima in direzione del tavolo coi bambini poveri, poi in direzione mia. La cameriera gli stava raccontando tutto. Probabilmente gli stava dicendo che avevo cercato di afferrarle la mano, che le avevo guardato il culo mentre si allontanava e si chinava sul frigorifero della Coca Cola. Avevo d’improvviso voglia di andar via, ma mi sentivo completamente paralizzato, e non riuscivo a decidermi di mangiare l’ultimo boccone del mio pranzo.
Capii che era lui il suo uomo da come, rientrando in cucina, le diede una pacca sul sedere,e da come lei prese quella stessa mano che le aveva picchiato il sedere e la accarezzò, velatamente, prima di lasciarla andare. Successe tutto in un attimo. Capii poi che i bambini poveri al tavolo nell’angolo buio erano i suoi figli da come guardavano senza avere il coraggio di dire niente, da come l’uomo prese da un reparto del bancone un pezzo di bistecca e lo gettò ai cani, che ci si fiondarono, e a quel punto non avevo più potuto resistere, mi alzai e mi lancia fuori dal locale. Uscire da quel posto non era stato per niente facile. Dapprima avevo dovuto lottare con la densità dell’aria piena, come già detto, d’inquietudine e di angoscia, e ora di terrore per non sapevo neanch’io bene cosa - e avere paura senza sapere di cosa è il peggio che può capitare, perché non sapendo di cosa bisogna aver paura bisogna iniziare a guardarsi da tutto, e quindi si finisce ad aver paura per tutto – e fare quei pochi metri dal mio tavolino alla porta si era rivelata un impresa sovrumana, che mi pareva come se stessi cercando di andare controcorrente e di impiegarci minuti interminabili, e poi quando finalmente ero arrivato all’uscito, l’avevo trovata irrimediabilmente bloccata da Ganesh, che urtai mentre cercava di entrare, ed io di uscire, e nell’urto mi caddero dalla tasca il portafogli e le chiavi di casa, e nessuno dei due voleva saperne di lasciare il passo all’altro, finché lui non aveva ceduto e si era scostato un pochino, scocciato, forse comprendendo la situazione, ed io avevo potuto proseguire la mia fuga il più lontano possibile dal Can Can, che ora non sapevo più cos’era, perché sicuramente non era né un bar, né una bettola, né un bel posto. Era, anzi, un postaccio.
Una volta fuori mi ero poi calmato, e addirittura mi ero preso un istante, ma potrebbe anche essere che me lo fossi perso, sono molti e molto diversi i significati che si possono ottenere combinando insieme cinque lettere del resto, per guardare che ore fossero, giusto per avere un riscontro di quanto tempo avevo passato lì dentro, e di quanto ne avevo ancora a disposizione, e avevo guardato l’ora sull’orologio che portavo al polso destro, e che ero completamente ignaro di avere, e di nuovo, come era successo dentro al Can Can, non ero in grado di leggere l’ora segnata sul display, e quindi non mi preoccupai troppo quando vidi che l’orologio si era staccato dal polso ed era caduto per terra. Così fu che persi l’orologio. Non sapendo neppure di averlo al polso, né di averlo mai avuto in vita mia, e non avendo peraltro più tempo a mia disposizione, essendomi esso appena fuggito, avevo lasciato perdere quel fatto, e senza preoccuparmi oltre, avevo deciso di avviarmi il più lontano possibile, prima che la cameriera, o peggio l’orco di suo marito, uscisse a reclamare il conto, e mi ero messo a correre nella direzione opposta a quella da dove ero arrivato. Correndo, avevo poi perso dapprima i pantaloni, e poi tutto il resto dei vestiti, e poi era arrivato il turno dei capelli e delle braccia. Stavo quasi iniziando a perdere anche gli occhi, che già erano scivolati fuori dalle orbite, ma che ero riuscito a recuperare respingendoli dentro con le spalle, quando la mia corsa si era dovuta fermare, e avevo smesso di perdere cose. Il motivo per cui mi ero dovuto fermare era che da una strada che incrociava la via tutta cosce e gomiti dove si trovava il Can Can, e dove mi trovavo anch’io in quel momento, una strada per altro che non ci sarebbe dovuta essere, poiché in quella via del Can Can non c’erano strade che incrociavano, e da quella strada avevano iniziato ad attraversare, bloccandomi la corsa, un gregge di pecore, accompagnate da diversi cani che le indirizzavano abbaiando, e capitanate da una pecora nera, più bruttina e piccola, che stava davanti a tutte. Mentre attendevo il passaggio del gregge, mi ero messo ad analizzare come mi ero ridotto a pezzi, quando da lontano sentii una voce urlare qualcosa nella mia direzione, e guardandomi indietro avevo notato la cameriera del Can Can, tornata ventenne, che mi correva incontro, portando tra le braccia le mie braccia che avevo perso, oltre che i pantaloni, il resto dei vestiti, il portafoglio, le chiavi, i capelli, l’ultimo boccone del pasticcio rad. e gorg. e il conto da pagare. Avevano quasi finito di passare le pecore, che la cameriera del Can Can mi aveva quasi raggiunto con le braccia a cesto, e dentro tutti i miei effetti personali, e urlandomi EHI! O EHI LEI!, ma io, sentendomi braccato, avevo fatto finta di niente, mi ero guardato attorno come per vedere a chi stava parlando, poi avevo finto di guardare l’ora sull’orologio da polso che non avevo, e avevo poi simulato una faccia stupita guardando l’orologio che non c’era, come se mi fossi appena reso conto di essere enormemente in ritardo per andare a un qualche appuntamento che non sapevo di avere, e così fingendo mi accingevo poi a riprendere la mia strada lontano dal Can Can drive, quando ecco che di nuovo la strada mi veniva bloccata questa volta da un esercito di tedeschi che sfilavano, tutti belli, tutti biondi tutti alti, anche loro accompagnati dai cani, anche loro capitanati da un tedesco più bruttino e basso, e scuro di capelli e con i baffi.