“Sono un panino. E non so neanche il perché", ormai questo pensiero faceva capolino nella mia mente ad ogni mio risveglio, rattristandomi sin dal mattino. Fingere di non conoscerne il motivo era squallido, ma non avevo alcun’ intenzione di incominciare male la giornata e continuavo a mentire a me stessa. Il perché fossi un panino, invece, lo sapevo e come! E, cosa più triste ancora, lo sapevano anche gli altri.
Andavo giorno dopo giorno assomigliando sempre più ad un panino ripieno, lievitavo a vista d’occhio ed ero sempre più emarginata e derisa, soprattutto quando ad ogni nota musicale, ovunque mi trovassi, mi lasciavo prendere da una spontanea euforia e cominciavo a dimenarmi all’impazzata, assecondando la mia passione: il ballo. Sfrenandomi, lasciavo che la mia allegria prendesse il sopravvento valicando irragionevolmente quei paletti che mentalmente avevo costruito affinché circoscrivessero sempre più il mio raggio d’azione e mi imprigionassero. Solo dopo ogni esibizione mi rendevo conto della figuraccia che avevo appena fatto, mi insultavo per aver ceduto ancora una volta alla naturalezza, mi davo della stupida, dell’idiota, continuavo a ripetermi che non sarebbe più dovuto accadere. Avevo dato spettacolo e suscitato l’ilarità maliziosa di chi mi stava accanto. Le ragazzine prendevano sempre di più le distanze da me, uniformandosi col pensiero e mettendomi al bando. Più mi escludevano per il mio aspetto, la mia goffaggine, più mi ingozzavo e più maturava in me la consapevolezza che quella frase che mi aveva tanto affascinata leggendo un breve racconto, e che avevo fatta mia: “io sono come il mare”, non mi apparteneva più. Non mi sentivo più come il mare: libero e infinito. Avrei voluto godermi appieno la vita, ma ero da sola e non avrebbe avuto senso, e poi proprio la vita mi regalava questa realtà: meglio lasciarla che viverla. Cresceva in me sempre più il desiderio di voler sparire per sempre fino a quando non ho incontrato stecchino, un esile ragazzino mio coetaneo dal volto scavato chiamato da tutti così per il suo fisico minuto. Anche lui, come me, viveva la sua disperazione in solitaria. Spesso facevamo educazione fisica insieme o, meglio, guardavamo come gli altri la facevano, visto che ci escludevano: io perché troppo grassa e rischiavo di rotolare, lui perché troppo magro e rischiava di spezzarsi. Lo avevo avvicinato perché mi rattristava vederlo sempre solo, da allora avevamo iniziato a frequentarci, accomunati dallo stesso senso di malessere di cui i nostri genitori nulla sapevano; riuscivamo a nascondere loro le nostre emozioni e ci sforzavamo a recitare il copione che la vita ci aveva imposto, diverso da quello che avremmo voluto interpretare.
Giorno dopo giorno diventavamo sempre più amici e ci raccontavamo di tutto, ma mentre i miei pensieri andavano prendendo colore, perché avevo qualcuno con cui parlare e condividerli, i suoi diventavano sempre più scuri, inquietanti ed angosciosi, nonostante la mia vicinanza. Stefano, questo il suo nome, non ce la faceva più ad andare avanti, si sentiva stanco. Stanco di vergognarsi del suo aspetto, stanco di ritrovarsi nuovamente solo quando io andavo via, stanco di fingere benessere, stanco di indossare una maschera che gli andava sempre più stretta deformandogli la fisionomia. Una volta aveva provato a parlare del suo disagio ad uno zio, una richiesta d’aiuto la sua, rimasta inascoltata. Era stato liquidato con la classica frase: “di che ti lamenti, sei fortunato, non ti manca niente”. Da allora non ne aveva fatto più parola con nessuno.
Nonostante la mia compagnia, un tarlo gli invadeva sempre di più il cervello. Era necessario che io mi impegnassi affinché distogliesse il suo pensiero da quei progetti distruttivi, doveva esserci una chiave che gli aprisse la mente e li facesse volar via per sempre, dovevo assolutamente trovarla. E pensare che fino a poco tempo prima anche io stavo nelle sue stesse condizioni, e ora stavo ritornando sui miei passi proprio grazie a lui. Era un ragazzo logorroico, mi parlava a ruota libera, poi d’improvviso, come una radio durante un blackout, si spegneva ricadendo nei suoi dolorosi silenzi che sembrava mi urlassero in faccia. Apprezzavo la sua sincerità, il suo rispetto, la sua amicizia, avevo dato sfogo ai miei pensieri e lui mi aveva ascoltata. Finalmente c’era qualcuno capace di farlo. A pensarci bene, forse ce ne erano tanti pronti ad ascoltarmi, ma io li avevo esclusi, li avevo tenuti fuori e, solo adesso, mi rendevo conto che loro erano il mio mondo e ne avrebbero dovuto far parte. I miei genitori di sicuro mi avrebbero ascoltato, mia nonna lo avrebbero fatto se solo glielo avessi chiesto. Ero diventata praticamente cieca e sempre più convinta che quelle che pensavo fossero mie amiche rappresentassero il mio unico mondo, limitando lo sguardo solo al panorama che le racchiudeva. Sentendomene poi esclusa, mi era crollato il mondo addosso rimanendone schiacciata. Come potevano limitarsi alle apparenze? Come se il mio essere fosse trasparente ai lori occhi. Che ironia, vista la mia mole.
“In me - avrei voluto urlargli in faccia, ma non ne avevo il coraggio - abbonda tanto grasso quanto altruismo e sensibilità, ed ho tanti difetti ma anche dei pregi, sono una persona io, cavolo!”. Quanta cattiveria gratuita la loro, solo perché in gruppo. Magari singolarmente, affrontandomi, se la sarebbero fatta addosso.
Solo rifugiandomi in Stefano avevo trovato la forza di reagire, ora toccava a me aiutarlo, il macigno che lo stava schiacciando doveva essere rimosso.
Avevo escogitato un piano per avvicinare la sua famiglia, era stato sempre restio a farmela conoscere. Con un po’ d’astuzia ci ero riuscita diventandone assidua frequentatrice. Persone affabili e attente, l’opposto di come Stefano me le aveva descritte. Era convinto che per loro lui non esistesse, troppo impegnati ad ascoltare il fratello maggiore: intelligente, robusto e di bell’aspetto, pensava. Non era assolutamente vero, le loro attenzioni erano tutte per lui, ma il suo malessere gli offuscava la vista deformandone la realtà: li vedeva come dei veri nemici. Compresa la situazione, senza pensarci troppo, un giorno, approfittando della sua assenza, avevo spifferato il suo dramma ai genitori, meglio essere odiata da Stefano per quanto stavo facendo, piuttosto che restare indifferente e voltarmi dall’altra parte. La sua felicità sarebbe stata la mia.
Aperti gli occhi su chi mi stava accanto, e mi voleva davvero bene, anche io avevo chiesto aiuto. Una reazione a catena, un vero effetto domino perpetuo ed infinito aveva preso il via.
Annunziata Zinardi