Dottoressa buonasera. Le scrivo dalla mia camera, la lampada accesa sopra la mia scrivania e la luce dello schermo che proietta una luminescenza azzurra sulle mie mani posate sulla tastiera. L’atmosfera è calma, non c’è nessuno in casa ed io mi sono ritagliato un po’ di tempo per buttare giù due righe e svolgere il compito che mi ha assegnato. Le dico intanto che non è stato facile e non so nemmeno se questo tentativo che sto effettuando andrà a buon fine o, come gli altri, rimarrà un file in una cartella da qualche parte nel computer. Mentre tento di portare in fondo questo testo, in sottofondo va un vecchio brano malinconico degli anni sessanta che mio padre ascoltava sempre quando si metteva da solo a leggere un libro. L’impressione è sempre stata quella che non gli bastasse svolgere una sola attività. Si mangiava le unghie frettolosamente mentre, con l’altra mano, sosteneva aperto uno dei suoi libri incomprensibili e, forse, anche privi di significato. Io, comunque, non li ho mai capiti. Mi ricordo di come animatamente provava a spiegare un passaggio di questi alla mamma, mentre lei annuiva divertita per quanto fosse infantile ed appassionato, credo che le facesse più che altro tenerezza. Erano innamorati? È forse questo l’amore? Non l’ho mai capito. A volte litigavano, in silenzio li sentivo discutere animatamente. Lei lottava spesso per ottenere qualcosa che non sapevo bene cosa fosse, le risposte di lui invece erano estremamente fredde e razionali, quasi discutesse dei suoi trattati e provasse a far quadrare la situazione. Poco ha mai capito dell’amore, credo proprio che non sapesse cosa fosse e, se era presente, lo subiva, non lo gestiva di certo. La mamma si sforzava spesso di portarlo qui, di fargli notare cose che per lui spesso sembravano incomprensibili, o forse troppo facili da meritare una effettiva discussione.
Ieri l’ho visto su, vicino a quel grosso castagno che abbiamo al bordo del bosco. Era chino, con una mano accarezzava l’erba, non era lì in realtà. Mia madre svuotava la lavastoviglie in casa nel mentre, con una mano mi ha chiamato vicino a lei e mi ha abbracciato, io mi sono lamentato, l’ho allontanata lamentandomi, lei mi ha sorriso, ma era spenta, profondamente triste forse. Mi sono pentito di averla allontanata, forse aveva bisogno di me, ma che cosa ci posso fare io? Sono solo il figlio, non posso che seguire i fastidi e le passioni, non mi è data la possibilità di preoccuparmi, ma invece l’ho fatto. Infatti, di sera, l’ho chiamata e le ho chiesto come è andata la giornata e come aveva passato le ore del pomeriggio. Mi sono fatto ancora più coraggio e le ho dato un piccolo abbraccio, superando l’imbarazzo: un figlio non dovrebbe cercare l’abbraccio di sua madre, è strano, no? Mio padre era sul divano, guardava un film di fantascienza o cose del genere, quelle che piacciono a lui. Non so se fosse realmente lì, sembrava preso e pensoso. Sullo schermo alcuni astronauti si trovavano d’innanzi ad un cielo stellato. Mi ricordo quando con il dito puntava le stelle fuori casa nelle notte d’estate e parlava la sua lingua strana aspettandosi che io capissi, ma io capisco ora, al tempo annuivo estasiato, ora capisco che parlava di un’altra vita, quella che forse nessuno di noi avrebbe mai vissuto e che nemmeno lui avrebbe riconosciuto come la vita voluta, se l’avesse assaporata. Credo che uno dei suoi problemi sia proprio il fatto che non si accorge che tutto quello che ha l’ha voluto e raggiunto. Forse tanto altro non riposa tra le sue mani, ma credo che per molto altro si possa ritenere fortunato. Non mi fraintenda, io gli voglio bene e lo stimo tanto, ma certe volte è una disgrazia. La sua difficoltà di vivere è come una nube, influenza il contorno, dilaga. Dovrei dare più abbracci a mia madre, non so che avesse in testa quando l’ha sposato, immagino che abbia visto in lui qualcosa, perché effettivamente qualcosa c’è, ma è nascosto da troppi strati di altro, che, di certo, piacevole non è. È un po’ come intuire un corpo sotto le coperte.
Mi ricordo molto bene di quando mi disse che non importa cosa fai nella vita, quello che importa è essere felici, e la felicità è sempre cristallina, mai contaminata, sincera e estremamente visibile. Forse si è perso, non trova la strada di casa, quella che dovrebbe portarlo a noi, alla semplicità del pensare, alla vita e al presente. Io non capisco perché non sia qui. Alcune volte mi accarezza la testa, sento la sua mano ruvida passare sopra i miei capelli e scendere lungo la guancia, ma attaccato a quella mano non c’è lui. Quello è un semplice gesto svuotato di significato e presenza, la mano è fredda, glaciale, mai presente a me. Lo odio quando lo fa, dico sempre che dovrebbe assolutamente smettere di fare le cose perché deve poiché, se le cose sono fatte per obbligo o prassi, l’unica cosa che riescono a dimostrare è ciò che non sono, cioè come dovrebbero essere, portando alla luce la distanza da quelle che sono in realtà. Mi chiedo spesso come lo vorrei, ma spesso mi ripeto che sono egoista, non mi posso permettere di pretendere nulla, lui è così, punto.
Sono sicuro che si pentirà di tutto ciò, si pentirà di non esserci stato, di non aver vinto la sua battaglia, o di averlo fatto troppo tardi. Io volerò via, tutti noi lo faremo, ma non so se lui se ne accorgerà. Mi ricordo quando mi arrabbiavo per questo e quanto la mamma gettava acqua sul mio fuoco interiore, cercando di compensare con le sue attenzioni. Dovrei abbracciarla più spesso. Vorrei essere cresciuto più lentamente, non me ne è stata data la possibilità. Vorrei che mi sorridesse come solo poche volte ha fatto. In fondo non è una persona cattiva o egoista, no, non lo è, ma non me la sento di giustificarlo. Non farò la fine di mia madre. Vorrei veramente che vincesse la sua battaglia, vorrei anche aiutarlo, ma i miei tentativi non sono utili a nessuno. Vorrei tanto che un giorno, svegliandosi, venisse da me nella mia camera e mi dicesse che ce l’ha fatta. Da adesso è qui. Così potremmo sederci nuovamente nelle notti d’estate fuori da casa, osserveremo le stelle insieme e mi spiegherebbe quali siano le costellazioni del cielo, ma senza perderlo in queste. Sarebbe qualcosa di molto semplice e presente, sarebbe come un padre e un figlio dovrebbero essere. Basta con la profondità che implica distanza e nessun tunnel da cui io esco solo e con le mie forze, avendolo perso all’interno. Sarebbe solo una semplice passeggiata in un semplice giardino, niente di più. Semplicità ed affetto, vita quotidiana e sentimenti reali. Niente più qualcosa di più.