SCIOPERO
Il giorno tanto atteso, temuto ed invocato nasceva chiaro e sgombro di nubi. Era una fredda e luminosa giornata di fine marzo. Torino si svegliava con lo sferragliare dei tram, il rumore dei camion della spazzatura, il profumo del pane fresco che usciva dai forni in piccole volute di vapore lattiginoso. Il chiarore dell’alba proiettava le lunghe ombre delle persone infreddolite che passavano per le strade ancora illuminate dai lampioni. Lungo la direttrice di marcia dei previsti cortei si notavano già i movimenti delle forze dell’ordine. Il personale del comune stava mettendo le transenne per delimitare l’area e per costringere i manifestanti a sfilare in un percorso obbligato. Per ragioni di sicurezza si cercava di evitare il contatto fra i gruppi dei lavoratori e degli studenti. Gli unici autorizzati a sfilare erano i lavoratori. Ogni altro corteo non era autorizzato dalle autorità. La polizia era autorizzata a mantenere l’ordine ad ogni costo, anche con la forza. Lungo il corso stavano confluendo colonne d'automezzi cariche di agenti. Ogni gruppo doveva prendere posizione agli innesti delle vie laterali in modo da blindare il tracciato per il corteo. Un gruppo fu mandato a presidiare gli edifici pubblici, tutti gli altri nei punti nevralgici. La preoccupazione delle autorità era rivolta verso quei drappelli di facinorosi che si univano al corteo solo per creare disordini. Gli operai avevano sempre dimostrato un comportamento responsabile, mai nessun problema. Gli estremisti invece, procuravano sempre guai.
Il raduno era previsto di qua della Dora, nei pressi di via Treviso, dove un paio di strade, senza uscita, permettevano di concentrare una quantità di persone senza arrecare fastidio alla cittadinanza. Una volta riuniti, potevano incolonnarsi, oltrepassare il ponte e, trovarsi così nel circuito predisposto. La colonna poteva raggiungere il municipio, dove era prevista una sosta per farsi vedere e, soprattutto, per farsi sentire dalle autorità. Franco si presentò all’appuntamento, quando già erano arrivati oltre duecento operai, molti dei quali forniti di striscioni e cartelli di protesta. C’era tensione nell’aria e lui, cercò di intrattenersi un po’ con tutti, incoraggiando i più giovani e, soprattutto gli emigrati che, per la prima volta, partecipavano ad un evento del genere.
La sua assillante raccomandazione era quella di ignorare le provocazioni da parte dei gruppi estremisti, molti dei quali, erano assoldati proprio dai padroni per stroncare ogni tentativo di protesta da parte degli operai. Ai primi segni di conflitto fra i partecipanti, la polizia doveva sciogliere il corteo e… addio dimostrazione. La maggior parte di questi gruppi era formata da studenti e da simpatizzanti della destra, da sempre ostile nei confronti dei meridionali.
Franco sapeva che era arduo trattenere i suoi corregionali. Per farsi capire meglio stava usando, anche il dialetto stretto, un linguaggio che capivano bene. Voleva essere sicuro di far capire l’importanza del momento, la riuscita della manifestazione era nelle mani dei suoi compagni. Alle dieci in punto il corteo si mise in moto. La massa di persone era impressionante. Un fiume di caschi bianchi, gialli e di tute blu, occupava tutta la strada. I dirigenti del sindacato davanti, a portare il tempo con i fischietti, quelli con i cartelli si mantenevano nel ventre centrale della massa. Il primo tratto si svolse regolarmente. Oltrepassato il ponte, arrivarono i primi agitatori che, dai lati del corteo, cominciarono le provocazioni con ingiurie e lanci di ortaggi, avevano il compito di scompigliare le fila. Molti, infatti, per ripararsi si fermavano ed erano subito accerchiati e portati via dagli studenti, una volta nelle vie laterali venivano picchiati. I poliziotti, però se ne accorsero anche se con ritardo, presero le dovute contromisure. Ormai la guerriglia era iniziata e del corteo era rimasto solo un nucleo formato da operai anziani che non volevano mettersi in competizione. In gruppo compatto continuarono verso il municipio. Gli altri più giovani, invece, si fermarono ad affrontare le bande dei provocatori. I bastoni dei cartelli diventarono armi e molti cacciarono di tasca i coltelli, i siciliani non lo lasciavano mai. C’erano scontri ad ogni angolo di strada, la polizia faceva caroselli con le jeep, il caos era totale. Quella che doveva essere una marcia di protesta per affermare dei diritti inalienabili, si stava trasformando in una bolgia infernale. Franco, deluso e amareggiato per non aver potuto fermare quella follia, decise di ritornare a casa. Lasciò al loro destino i compagni, incapaci secondo lui, di capire l’opportunità che avevano appena perso. Aveva lavorato due anni per rendere i suoi compagni degni di affrontare le problematiche del lavoro e, invece, alla prima occasione, si erano fatti travolgere dalle provocazioni messe su, ad arte, da chi, sapeva bene come trattarli. I tempi per ottenere una manifestazione imponente di protesta, forse non erano ancora maturi. C’erano ancora troppe differenze fra immigrati e quelli del posto, chissà quanto tempo doveva passare per vedere,finalmente, tutti i lavoratori uniti e compatti per ottenere il rispetto dei loro diritti. Fin quando esistevano le disparità di trattamento, i padroni avrebbero avuto sempre la meglio. Camminava per vie traverse cercando di evitare i luoghi degli scontri, ma ad un angolo, girando verso la ferrovia, incappò in un gruppo di giovani con il viso coperto da fazzoletti, lo presero in mezzo e per lui fu difficile evitare il peggio. Al risveglio si ritrovò, insanguinato e dolorante, a stento, riuscì a mettersi in piedi e, zoppicando, riprese il cammino. Tre giorni più tardi, dopo un breve ricovero in ospedale, con un braccio ingessato e due costole rotte, si trovò seduto in un treno che ,o avrebbe riportato a casa, nella sua Sicilia. Sconfitto dal pregiudizio e dalla prevaricazione, il suo tentativo di inculcare nella mente dei suoi compagni, l’idea di parità, di diritti e della libertà d'espressione era fallito miseramente.
Le colpe non erano da attribuire solo ai padroni o a quelli che discriminavano, ma anche al quel servilismo innato nella gente del sud che, nonostante le vessazioni conserva dentro di sé, un senso di sottomissione verso chi è diverso da loro, ritenendosi, a torto, non all'altezza di poter competere.
Il treno correva veloce verso casa e Franco era ansioso di ritrovarsi in seno alla famiglia che aveva lasciato, con la convinzione di portare le sue idee di libertà fra gli emigrati al nord. Troppo presto aveva lasciato il suo nido all’ombra dei carrubi dove, le sue utopie sembravano possibili e realizzabili.