«Il… Il suo stato?» chiese Horace, impallidendo. «Che cosa le accadde, Robert? Nella lettera non hai specificato quale fosse il morbo che si era diffuso sulla Grafton, né come sia successo che un intero bastimento sia scomparso fra i flutti nonostante il mare fosse in bonaccia…»
Nonostante la conversazione fosse appena iniziata, Horace appariva già notevolmente scosso.
«Vorrei avere più risposte per te, amico mio» mormorò Robert, «Non so come questa cosa sia salita a bordo, e nemmeno in quale forma. Forse era nascosta nel carico, oppure uno dei passeggeri aveva contratto l’infezione durante una delle nostre tappe e l’ha poi tramessa al resto di noi. Forse qualche spora, portata dal vento da chissà quale isola… o forse quei reperti funebri acquisiti per conto dell’Accademia delle Scienze erano contaminati, io non lo so Horace…»
Robert iniziò una risata isterica, subito interrotta da un violento attacco di tosse. Horace aprì la bocca per interloquire, ma era troppo sconvolto per emettere suono, quindi Robert, ripresosi dagli spasmi, proseguì, con tono dolente: «Tu mi conosci, Horace. Sono sempre stato razionale, positivista fino all’eccesso. La mia mente non potrebbe mai prendere in considerazione qualcosa di assurdo come una fantomatica “maledizione degli Inca” o cose del genere, ma quello che ho visto… mio Dio… quello che ho visto rischia di farmi cambiare idea e di ridurmi alla stregua di un bigotto superstizioso.»
Assalito dai ricordi, Robert tacque. Il silenzio si protrasse per alcuni secondi, divorando pensieri, parole, reazioni. Da quel vuoto alcune parole riuscirono ad emergere: «Ad ogni modo…»
Quelle prime parole sembrarono in qualche modo ricostruire un ponte tra l’orrore e la razionalità, e Robert riuscì a continuare il suo racconto: «Ad ogni modo, un giorno il medico di bordo mi informò di una possibile epidemia di pidocchi allorquando alcuni marinai iniziarono a lamentare uno strano prurito, accompagnato da un arrossamento agli arti. Dopo un paio di giorni ci furono i primi ricoveri: sei uomini, che presentavano tutti i sintomi della malaria, in aggiunta a quelli appena citati, si recarono in infermeria per non uscirne più. Mi fu riferito che le loro estremità apparivano ingrossate in modo abnorme e si erano ricoperte di dolorose ulcere, e che nessuno, fra i trattamenti che erano stati loro prodigati, aveva ancora sortito il benché minimo effetto. Entro una settimana fu chiaro che eravamo di fronte a qualcosa di sconosciuto: quasi tutto l’equipaggio si era ammalato, medico e infermiere inclusi, e il vice comandante improvvisò senza successo alcune misure di isolamento nel tentativo di arginare il contagio. La nave fu dirottata verso l’approdo più vicino per sbarcare quei pochi che erano in buona salute ma, disgraziatamente, Vanessa si ammalò prima che potessimo toccare terra.»
Robert si interruppe ancora e portandosi la mano alla bocca, nuovamente in preda alla tosse. Poi notò il bicchiere che il padrone gli aveva servito e lo afferrò, trangugiandolo d’un sorso.
La preoccupazione per l’amico riuscì in qualche modo ad avere il sopravvento sull’incredulità e Horace disse: «Stai male. Robert. Vieni con me, ti porto dal mio medico»
Robert scosse la testa.
«Non c’è tempo» rispose con urgenza febbrile, «Siediti e ascolta… per favore.»
Horace si arrese, lasciando che il racconto proseguisse.
«Una notte Vanessa scomparve. Ero in coperta insieme al primo ufficiale, con cui mi trovai a collaborare in modo molto stretto in quei giorni drammatici. Questi mi stava spiegando come avremmo utilizzato le scialuppe la mattina seguente. Il ponte era deserto e, sebbene non si fossero registrati decessi, ci chiedevamo se ci sarebbe stato un domani per tutti quegli sfortunati, ammassati in infermeria o stipati in qualche improvvisato dormitorio, isolato dagli altri. Il tenente Clarke mi disse che sarebbe rimasto sulla Grafton per fare tutto il possibile perché l’epidemia rimanesse confinata a bordo, e mi pregò di inviare gli aiuti con la massima sollecitudine. Mi sentivo in colpa a nascondere lo stato di Vanessa in una situazione di quella gravità e, non riuscendo a sostenere l’imbarazzo, tornai in cabina a prendermi cura di lei. Trovai la porta spalancata e la cabina vuota. Iniziai a chiamarla e a cercarla dappertutto, col cuore appesantito dai peggiori presentimenti. Una ricerca sempre più frenetica mi portò infine ad imboccare il corridoio che conduceva all’infermeria. Pensai che in preda al delirio vi si fosse recata per pura disperazione, nonostante l’area fosse stata interdetta a chiunque ma, quando vi giunsi, mi resi conto di essermi sbagliato. L’infermeria era vuota...»
«Come sarebbe a dire, vuota?» sbottò Horace.
Robert respirava a fatica. Tirò giù un sorso dal bicchiere che l’amico gli aveva nuovamente riempito.
«Se n’erano andati, Horace. Tutti quanti. L’infermeria era stata abbandonata anche dal personale medico. C’erano delle strane tracce sul pavimento, come se si fossero tirati dietro degli stracci umidi, ma le strisce irregolari non erano frutto di un lavoro di pulizia. Le seguii. Quelle, e le porte che trovai aperte lungo il cammino, mi condussero in basso, verso la stiva. Quando scesi fui aggredito da un odore deciso, simile alla colofonia, che diventava più pungente a mano a mano che procedevo. Poco dopo vidi Vanessa, davanti a me, alla fine di un corridoio. La chiamai, due volte, ma ella mi ignorò. Prima che scomparisse dietro l’angolo, gridai. Si voltò per un istante. Mi guardò, ma penso che non mi vide veramente. Era ancora più pallida di come l’avevo lasciata, gli occhi scavati e arrossati, con indosso unicamente la camicia da notte di seta che lasciava intravedere le zone in cui la pelle era mutata. La rincorsi e l’afferrai per un braccio. Cercò debolmente di divincolarsi e di proseguire, ma la costrinsi a voltarsi verso di me. Solo in quel momento, attratto dai gemiti sordi che provenivano dalla semioscurità, mi resi conto con orrore che non eravamo soli.In un angolo della stiva, fra le casse impilate e assicurate alle pareti dal cordame, i malati si erano riuniti per ammucchiarsi gli uni sugli altri, dando luogo a uno spettacolo osceno e spaventoso. Capii che dovevano aver abbandonato i dormitori e l’infermeria quasi all’unisono, come rispondendo a un segnale che solo loro potevano percepire, si erano radunati in quel punto esatto della nave, al riparo dalla luce, in cerca di umidità e calore, spogliandosi dei vestiti e avvicinandosi reciprocamente, alcuni strisciando, altri camminando come sonnambuli. Senza parlarsi. Senza guardarsi. Ma non si stavano semplicemente ammassando, Horace: si stavano… unendo! In un modo che non so spiegarti, i loro corpi si stavano fondendo, carne con carne, carne nella carne. In alcuni tratti di quella strana amalgama non vi era più distinzione fra un essere umano e l’altro, ma solo residui stilizzati di volti e di sessi.