Mi guardai attorno un po’ smarrita: gli scatoloni mi circondavano ovunque, la casa era quasi tutta impacchettata e pronta per il mio trasferimento. Ebbene sì, me ne stavo andando: chi l’avrebbe mai detto? Dopo tanto tempo, una parte di me sarebbe comunque rimasta qui, tra queste mura bianche, che non ho tinteggiato perché da mesi ormai sapevo che sarebbe venuto questo momento.
Sospirai e mi diressi verso la credenza, l’unico mobile che restava ancora da espugnare, e quando aprii le ante per scoprire le file di piatti e bicchieri da imballare, fui quasi presa dallo sconforto: interminabili file di piatti e bicchieri acquistati anni prima, parte di una lista nozze sfruttata soltanto a metà. L’altra metà è rimasta a dormire in armadi e credenze per anni, in attesa della grande occasione in cui li avremmo utilizzati, ma quella grande occasione non è mai arrivata. O forse, anche in quell’occasione, ho utilizzato i piatti di tutti i giorni, quelli più semplici e pratici, che non ci si fa problemi a mettere in lavastoviglie, che anche se si rompono non importa.
E poi proprio lì, dietro a quei piatti e bicchieri, è apparsa la bottiglia, con la sua scritta rossa e l’uomo barbuto in cima. Ho sorriso nel vederla, come si sorride ad una vecchia amica che non si incontrava da anni.
Mi ero dimenticata di lei, eppure, quando l’avevo nascosta lì dietro, ero stata decisa a tenermela per sempre, a non fartela trovare perché non te la portassi via. E così è stato, la bottiglia è rimasta qui, insieme ai piatti e a questa casa, e il mio primo pensiero, nel ritrovarla, è stato che ora verrà via con me, nell’altra casa, nell’altra vita che sto per cominciare.
Ho allungato una mano e l’ho presa per il collo, poi me la sono rigirata, guardandola da tutti i lati e leggendo il nome del vino pregiato: Château Petrus. Ripetei quel nome dentro di me, come l’avevo ripetuto quella sera, tanti anni fa, quando eri stato tu a rigirarti la bottiglia tra le mani, a guardarla, a leggere l’etichetta, a commentare l’annata. Il vino migliora con gli anni, forse la parte migliore di noi se n’è andata invece col tempo.
Non mi diceva molto quel nome, non capendo io niente di vino, mi piaceva invece la scritta rossa. Ricordo che mi mostrasti quel regalo come se fosse qualcosa di molto prezioso, eri felice di spiegarmi le caratteristiche e il valore di quel liquido, che non bevesti mai. Perché a quei tempi mi amavi e desideravi condividere tutto con me, rendermi partecipe delle tue gioie, dei tuoi piaceri.
Anch’io ti amavo, e ascoltavo le tue parole, facendo attenzione a non perdermi nemmeno una sillaba, perché mi interessava capire quello che ti piaceva. La passione per il vino, però, non riuscii a condividerla mai, anzi, fu forse proprio quella una delle prime cose che ti resero antipatico ai miei occhi: ad un certo punto mi accorsi di detestare quella tua mania di assaggiare il vino dopo averlo rigirato nel bicchiere e annusato, per poi mostrare un’espressione rapita o contrariata a seconda dell’esito dell’assaggio.
Lo facesti anche quella sera, dopo che, al terzo mese, avevo perso il bambino che avevo tanto voluto, il bambino di cui conoscevo già il nome e di cui avevo immaginato così tante volte il colore degli occhi e dei capelli. E invece all’improvviso, una mattina, una macchia di sangue mi avvertì che quel bambino se n’era andato, non avevano importanza né il colore dei suoi occhi né quello dei suoi capelli, non avrebbe mai portato il nome che avevo scelto per lui.
Sedevo accanto a te in quel ristorante, che era uno dei nostri preferiti, dove andavamo abbastanza spesso nei momenti felici e dove mi avevi portato per tentare di farmi dimenticare, per farmi uscire dall’apatia che mi aveva assalito. Mi avevi preso la mano, mi parlavi con voce bassa, raccontandomi qualcosa di buffo che ti era successo durante la giornata, cercando di farmi ridere. Improvvisamente la tua attenzione venne polarizzata dal cameriere, ti interrompesti per guardarlo mentre versava la quantità di vino sufficiente all’assaggio, agitasti il vino nel bicchiere, lo assaggiasti e poi lo allontanasti inorridito: “Sa di tappo!”
Adesso che ci ripenso, dopo così tanto tempo, credo fu proprio quello il momento in cui finì il nostro matrimonio. Sì, lo so, restammo sposati ancora due anni e per un anno e mezzo ci riprovammo e tentammo di nuovo di far nascere quel bambino che non ne voleva sapere, ma quella sera, in quel momento, mi resi conto per la prima volta di quanto fossimo lontani.
Io ero distrutta, perché avevo perso il mio bambino, perché il 20 maggio (quello era il termine, me lo ricordo ancora) invece di andare in ospedale e partorire, avrei vissuto una giornata qualunque, identica a mille altre che avevo già vissuto e di cui non mi importava niente. E tu? Cosa facevi tu nel frattempo? Ti scandalizzavi perché il vino sapeva di tappo.
Continuammo a vivere insieme in questa casa per altri due anni, questa casa che avevamo tanto amato e arredato con cura, scegliendo le cose che più ci piacevano, e che all’improvviso mi sembrava diventata troppo stretta per noi due. Un tempo avevo desiderato vivere con te, avevo amato vedere il tuo rasoio appoggiato sulla mensola del bagno accanto alla mia crema idratante, ora invece mi chiedevo perché mai non potessi avere una mensola tutta per me. Desideravo uno spazio mio, dove lasciar scorrere indisturbato il mio dolore, dove piangere il mio bambino, senza che arrivassi tu a consolarmi, dapprima pazientemente, e poi con un’aria sempre più infastidita. Per te, che quel bambino ci fosse o no, non importava poi tanto. Se non era venuto, ci sarà pur stato un motivo, dicevi e questo bastava a consolarti e ti sembrava assurdo che la tua semplice logica non bastasse a consolare anche me.
Per un anno e mezzo ci riprovammo, prestavo attenzione ad ogni minimo segnale del mio corpo e ti avvertivo che quella sera poteva essere buona. A volte ti lamentavi che eri stanco, che eri tornato tardi dal lavoro, e mi sembrava terribilmente infantile che potessi pensare di gettare via un’occasione, una possibilità, solo per un momento di stanchezza.
Da qualche parte, dentro di me, mi rendevo conto che ti stavo stancando, ma non mi importava più di tanto. Anch’io, nonostante non ci pensassi mai, ero stanca di te, eppure non mi sembrava qualcosa di così importante da lasciare che la mente vi indugiasse.
Facevamo l’amore più che altro per dovere, per sfruttare quel momento buono, dimenticando i gesti che ci avevano dato tanta gioia soltanto fino a pochi anni prima, e sostituendoli con altri, affrettati e stereotipati.
Quando mi dicesti che te ne volevi andare, che avevi un’altra donna, ti odiai profondamente. Non per l’altra donna, non perché ti amassi ancora, ma per tutte le aspettative mancate, per il nostro amore naufragato. In quei momenti riuscivo soltanto a pensare alla ragazza che ero stata quando ti avevo sposato, a come ti avessi amato e ascoltato le tue parole, desiderato un figlio con i capelli e gli occhi del colore dei tuoi.
Così mi barricai in questa casa, che avevamo creato a nostra immagine e somiglianza, decisa a non lasciartene nemmeno un brandello. Tu te ne andasti, ma continuasti a reclamarne i pezzi, un giorno un quadro di cui ignoravi la provenienza, un giorno un mobiletto che avevi sempre odiato, un altro giorno un tappeto al quale avevi sempre sostenuto di essere allergico.
Preso dalla foga di portarti via qualcosa che potesse interessarmi, ti dimenticasti della bottiglia, la tua bottiglia piena di quel prezioso liquido, che invecchiando acquista valore. In quei giorni aprivo la credenza e la guardavo, nascosta dietro le file di piatti, e sorridevo felice. Era la mia piccola vittoria, la mia rivincita.
Quanto tempo è passato? Per me moltissimo, da anni non penso più a quel bambino che ho tanto desiderato e forse, se me lo ritrovassi davanti oggi, ormai adolescente, non saprei nemmeno più cosa dirgli o che nome dargli. Ho vissuto a lungo da sola, in questa casa, rimpiazzando gli oggetti che ti sei portato via con altri, a cui mi sono affezionata e di cui ho riempito una ventina di scatoloni, per invadere la casa di un altro uomo, con cui ho deciso di risposarmi.
Non è stato facile avere il tuo indirizzo, perché di conoscenti in comune ormai ne abbiamo pochi. Ma alla fine ti ho trovato. Mi hanno detto che vivi da parecchi anni con una donna, non quella per cui mi hai lasciato, un’altra, e avete un bambino di cinque anni. Hai ancora il quadro e il mobiletto e il tappeto? O forse li hai buttati, dimenticati in qualche altro appartamento da cui sei uscito per l’ultima volta, sbattendo la porta come quella sera? Beh, come vedi, io ho conservato la bottiglia, anzi, per la verità me la sono dimenticata in un angolo della credenza, perché per me, da tanto tempo, non ha più importanza e credo che forse sia venuto per te il momento di bere questo vino, il cui valore sarà aumentato con il passare degli anni, così come è diminuito il peso di certi ricordi.