Per mia fortuna, quell’anno alle superiori non mi diedero nessuna materia da recuperare a settembre, ma ci mancò poco che mi rimandassero nell’odiosissima elettronica, che, grazie ad alcuni stentati 6, riuscii ad evitare.
Dopo aver pagato 12.000 lire per la caffettiera, dissi ai proprietari che ero libero per tutta l’estate ed esente dagli impegni scolastici, e chiesi se potevo lavorare per loro, garantendo la mia puntualità e serietà.
Restarono stupiti del mio entusiasmo e mi invitarono a venire l’indomani pomeriggio, una mezza giornata di prova per constatare la mia idoneità. Ero felice, e mi ripromisi di fare una bella figura. Quel sabato pomeriggio ancor prima dell’apertura del negozio mi trovai già li.
Essendo la mia prima esperienza lavorativa e poco pratico, la prova non andò esattamente a buon fine ma decisero comunque di tenermi.
Mi valutarono un ragazzo troppo buono, educato, volenteroso e che in termini lavorativi mi avrebbero “cresciuto” loro e… sfruttato come ahimè saggiai in seguito sulla mia pelle.
Ci accordammo innanzitutto sugli orari: la mattina dalle 7:50 fino alle 13:00, mentre il pomeriggio dalle 15:30 alle 20:30 dal lunedì al sabato, ma scoprii abbastanza presto che sfortunatamente tali orari non sempre venivano rispettati a causa dei clienti ritardatari o dei corrieri (quasi tutti provenienti dalla Calabria), con i loro camion strapieni di merce da scaricare e sistemare quasi sempre in magazzino e di conseguenza la chiusura sforava fino ai tre quarti d’ora.
Avevo però il vantaggio di abitare vicinissimo, a circa 300 metri, anche se in verità quel soverchio di lavoro mi irritava profondamente poiché come giusto che era, all’orario di chiusura ero stanchissimo, stressato, affamato e volevo semplicemente ritornarmene a casa. Ai proprietari ovviamente non interessava. Quel negozio, oltre che una fonte di guadagno, rappresentava tutta la loro vita e il loro primario intesse.
Dopo aver discusso degli orari, passammo al discorso retribuzione.
Mi dissero che, data la mia giovane età e la mia inesperienza, mi avrebbero potuto pagare 50.000 lire a settimana, con la promessa che la paga in seguito sarebbe aumentata, e aggiunsero che se avessi deciso di venire anche nel periodo scolastico, precisamente nei pomeriggi, avrei percepito 30.000 lire, poco più della metà.
Inizialmente tentennai, barcamenarsi in due imprese non sarebbe stato facile, anche perché da settembre avrei frequentato il terzo anno delle superiori all’ I.P.S.I.A e prevedevo un anno impegnativo con l’introduzione di nuove cose da studiare.
Fu la signora Ada a togliere le castagne dal fuoco:
“A noi un ragazzo serve, facciamo cosi: quando torni dalla scuola, pranzi, studi e alle 16: 00 vieni qui da noi per lavorare, va bene Giusippeddu?”, mi disse con tono invitante.
Feci i miei calcoli.
I soldi non erano tanti ma erano pur sempre meglio di niente, le ore pomeridiane da impiegare per lo studio pensai che mi sarebbero bastate e con il proposito che la sera avrei potuto pur sempre continuare, la voglia di lavorare non mancava e infine nonostante non mi conoscessero bene e senza sapere se mi sarei dimostrato un valido lavoratore, mi avevano elargito fiducia fin dal primo momento, tanto da propormi di continuare a lavorare pure dopo l’estate.
Calcolai inoltre che avrei accumulato pur sempre un’utilissima esperienza e che non sarebbe stata una cattiva idea rimanere il più possibile, per poi terminare una volta chiamato a svolgere il servizio militare di cui non vedevo l’ora di partire in quanto ambivo di far carriera nell’esercito. Fu cosi che accettai la proposta della “vecchia” e il lunedì successivo iniziò letteralmente il mio calvario e per adattarmi mi ci volle parecchio tempo.
A parte le note negative citate poc’anzi (gli orari non proprio comodi e i soldi che erano pochi), bisogna sottolineare che era molto difficile lavorare con i “Palazzo”, erano severi e autoritari, magari a volte si ammorbidivano con me, probabilmente temevano che mi sarei stancato e licenziato.
Il magazzino era il mio regno e allo stesso il mio nascondiglio nelle giornate in cui ero sfiancato, mi sedevo perlopiù sopra un grande scatolone sigillato contenente tappi di bottiglia, oppure sopra una pila di vasi di vetro per le acciughe salate, ma riposare risultava un eufemismo, come da copione venivo chiamato immancabilmente da uno dei quattro per svariati motivi. Guai a farmi scoprire seduto da qualche parte, per loro dovevo lavorare sempre e comunque.
Venivo spesso rimproverato, trattato in malo modo, e se manifestavo un esigenza come quella di assentarmi per un impegno sbraitavano come cani. Non avevano modi, in particolar modo la signora Ada, un autentico sergente di ferro.
Anche i clienti contribuivano a complicarmi la vita, tantissime volte si dimostravano pesanti, cocciuti, maleducati e per di più con l’assenza di comprensione da parte dei miei “padroni”.
La vendita della merce era regolamentata in base alla stagione, in estate ad esempio si vendeva per la maggiore tutto ciò che riguardava i pomodori destinati per le conserve (vasetti, tappi, spremipomodori elettrici o manuali, caldaie in alluminio etc…) mentre a Natale la gente si orientava nell’acquisto dei regali, prevalentemente articoli da cucina, e chi aveva tanti soldi non badava di certo a spese, acquistando costosi caquelon per fondue, o Vin Bouquet per gli appassionati sommelier e tant’altro, prodotti assolutamente non cinesi ma realizzati con cura e alta qualità nel Nord Italia, in Germania, in Svizzera, in Austria, in Olanda e nella Scandinavia.
Ovviamente il Made in China era presente, destinato per chi voleva spendere in maniera contenuta e con un vasto assortimento su cui poter scegliere. I perditempo non erano affatto rari, addirittura alcuni di essi erano spie mandati da altri commercianti, per indagare sui prezzi e sulla merce in vendita oppure gente che dopo duemila di domande se ne usciva comprando un tappo di sughero da cinquanta centesimi.
Una volta una signora acquistò un schiaccianoci di colore azzurro di soli tre euro e volle fatto un pacchettino per regalarlo ad una sua amica. Ce ne era di gente curiosa e posso affermare con certezza che ogni giorno mi stupivo sempre di più.
“Stagione che fai, clienti bizzarri che trovi”. Questo era il mio motto.