Il ferro dello rotaie, lo sferragliare della locomotiva sbuffante, come un drago malefico che aveva catturato le sue prede, gli era entrato in testa così profondamente, che ancora a distanza di tanti anni ne sentiva il brivido. Un terremoto sensoriale, che a poco a poco, s'ingigantiva e lo pervadeva in una crisi di panico, ove vedeva le immagini di un tempo fra il freddo, il dolore e la disperazione. Il medico di famiglia gli aveva consigliato di rivolgersi ad un neurologo. Ma lui sapeva che queste crisi erano legate ai ricordi, che come pesci morti affioravano di tanto in tanto in superficie e gli ricordavano l'immensità del dolore, a cui aveva preso parte e le cicatrici, che non erano mai riuscite a rimarginarsi. Il tempo cura, qualcuno gli aveva detto. Ma per lui non era stato vero. Si sentiva ancora come un albero rinsecchito, a cui avevano tagliato tutti i rami e si rivedeva senza braccia e poi sadicamente con le radici estirpate. Le sue speranze erano quelle di un tronco ormai secco a cui avevano vietato la speranza della primavera. Non era bastato l'amore della sua donna a fargli recuperare le sue forze psichiche. Anch'essa era stata vittima della persecuzione nazista ed aveva soggiornato nel campo di Fossoli, per poi essere stata destinata. Bergen Belsen. Ma la Liberazione era arrivata dopo pochi giorni mentre Adamh, era stato per tre anni in Auschtwitz e aveva vissuto lì, cercando di sopravvivere alle angherie, alle mortificazioni, alle violenze, alle camere a gas, alle fosse comuni. Quando le truppe russe entrarono nel campo, lo raccolsero come un cadavere vivente, uno zombie nascosto fra la miriade di corpi accatastati nel magazzino in attesa di essere bruciati. Sembrava il personaggio di Munch nel suo quadro, imprigionato nel suo terrore, in un paesaggio non paesaggio, in un'umanità disumana.
Si riesce a sopravvivere ma non più a vivere dopo un'esperienza così devastante. Ma l'Intento dell'azione dei gerarchi tedeschi di quel periodo era proprio questo: devastare, sdradicare, spersonalizzare, disumanizzare. Ed i campi avevano proprio questo obiettivo: far morire e se ciò non succedeva in tempi brevi, spossare brutalizzare chi era lì, per far dimenticare la sua umanità e ridurre a larve e a zombi.
Ricordò quando per la prima volta varcò i cancelli del campo. Da un pilastro all'altro del portone troneggiava una scritta in tedesco, che diceva che il lavoro rende liberi. Si inneggiava alla libertà. E fu come ricevere un pugno nell'occhio già al primo ingresso. Era una derisione iniziale, che avrebbe dato inizio non all'occupazione dei soggetti ma alla loro distruzione, al loro innientamento.
Lo portarono direttamente dentro al campo con l'insopportabile sferragliamento della locomotiva, quasi a scaricare merce nei magazzini dell'orrore. Ma tutto era falsità, come quando i capi del campo producevano filmati mentre si facevano delle cose che erano permesse solo per la ripresa e raccontavano la "villeggiatura" degli ospiti ed il trattamento esemplare dei prigionieri di ogni nazione, di ogni orientamento umano o politico- oppositivo. E poi la musica, la musica in ingresso con tutto l'apparato scenografico montato per l'occasione. Una ballerina ballava instancabilmente (perché non avrebbe potuto stancarsi se non voleva ricevere qualche punizione!). Era sofferente per le troppe ore, non era giovane ma era costretta a ballare, a danzare sulle note di un'orchestra di detenuti, che andava a ripetizione continua della stessa armonia. Una ballerina, che avrà odiato il ballo perché costretta ad illudere chi arrivava nel campo, come se tutto quel paesaggio fosse stato artistico, musicale. Ma tutto ciò era falsità, che nascondeva l'efferatezza del quotidiano. Quando un giorno la ballerina ebbe un cedimento di stanchezza e si fermò per un momento, un capitano nazista gli puntò una pistola alla tempia e fece fuoco. Poi prese la prima donna, che gli capitò vicino e la fece ballare al posto della ballerina. Rimase per tre giorni in una pozza di sangue gelato quella povera donna. Senza pietà, senza umanità. Al terzo giorno un kapò, eseguendo un ordine di un superiore, prese quel corpo fragile ed ornai gonfio e lo portò dentro il capannone in attesa di essere bruciato. E con lei tutti i sogni di quella donna, che ora erano stati imposti con la forza delle armi all'altra, costretta a ballare al suo posto: i sogni del rispetto della dignità umana.
La sua immagine gli ritornò alla memoria fra i brividi del freddo e l'allucinazione del trauma sepolto in lui. Avrebbe voluto vendicare quella donna. Ma rimase impotente a vedere il sorriso sadico di quel militare che aveva sfogato la sua frustrazione su quella povera ballerina del terrore. Un'immagine deflagrante come una bomba dentro alla sua anima, una scheggia conficcata dentro al suo cuore.