Tutto ebbe inizio una mattina presto ad apertura negozi. Uno strano tipo vestito da arabo, con una camicia lunga fino alla caviglia arrivò nella strada. Si trainava dietro, a mano, uno strano carretto attrezzato in modo ancora più strano. L’insolito veicolo si componeva di un tavolato di legno poggiato su due ruote d'auto. Su un lato era montata un'impalcatura a castello alla cui base si apriva una bocca da forno.
Era in pratica una specie di camino con tanto di tubo per il fumo, al centro aveva un cilindro metallico con una manovella. Arrivato in un angolo, poco distante dal negozio di tabacchi, mise i fermi alle ruote per dare stabilità alla sua creazione. Faceva queste operazioni con una calma indescrivibile, muoveva le sue lunghe braccia raggiungendo ogni angolo della sua bancarella mobile. Sotto quel lungo abito si poteva intravedere la sua eccessiva magrezza. Trasse da sotto le tavole, un po' di rami secchi e alimentò il fuoco dentro la caldaia.
Alcuni ragazzini incuriositi si avvicinarono per curiosare. Lui sorrideva. La curiosità dei bimbi era la sua migliore pubblicità. Rimasero alcuni minuti a osservare le manovre che faceva quello strano individuo. Sembrava un trampoliere con le ali aperte. Si girò verso di loro e i ragazzi poterono, allora, vederlo in viso e, presi dalla paura, scapparono a gambe levate. Sembrava avessero visto il diavolo in persona. Lui li vide andar via, invece di prendersela si limitò a continuare i suoi lavori sorridendo. Questa era la reazione usuale, sapeva anche che dopo sarebbero tornati e avrebbero accettato la sua persona come un amico.
Ahmed el Ahmari, questo era il suo vero nome, non era stato mai considerato normale. Fin da piccolo il suo aspetto fisico era stato motivo di scherno e derisione. Aveva il viso magro e allungato, scuro come una prugna secca.
Il suo corpo magro, rinsecchito, era alto quasi il doppio dei suoi coetanei.
Aveva una massa di capelli crespi, fitti, di un color rossiccio come una carota matura. Sempre più spesso la sua mamma lo allontanava da casa mandandolo nelle oasi a badare ai cammelli di proprietà della famiglia. Era un pretesto per non averlo fra i piedi, più stava lontano di casa, era meglio per tutti. Molte volte gli era capitato di sentire la madre dire di lui “quel ragazzo, è proprio brutto, una vergogna, una maledizione per la famiglia”. Lui soffriva di queste parole e della sua emarginazione. Fortunatamente il suo cuore era puro e pieno di bontà. Un giorno, dopo un ennesimo rimprovero subito ingiustamente, decise di andarsene. Si era convinto che la sua famiglia non lo avrebbe cercato, a loro non importava molto di lui.
Partì dal suo paese e s’incamminò sulla pista delle carovane che attraversavano il deserto. Sperava in una di queste per arrivare al mare. Poche settimane dopo, infatti, grazie all’aiuto di un capo carovana riuscì a imbarcarsi su un cargo mercantile in partenza verso l’Italia. Sbarcato in territorio italiano, girò in lungo e in largo tutto il meridione. Viveva ai margini delle città, dei piccoli paesi. Sua unica compagna era la fame. Lo seguiva come un’ombra funesta. Continuava a crescere nonostante tutto, era ancora giovane, ma sfiorava già i due metri.
Una sera, nel suo girovagare, si ritrovò in una campagna nei dintorni di Benevento. Era al centro di un enorme campo coltivato a pomodori, quei frutti grossi e carnosi stimolarono ancor di più la sua fame, i pomodori non erano ancora maturi, per lo più erano verdi e duri. Vinto dai morsi della fame, si mise a mangiarli. Non seppe mai, quanti riuscì a mandarne giù. Spossato dalla stanchezza, si addormentò nel campo fra le piante. Fu svegliato da un qualcosa di duro e appuntito che gli premeva sulle costole. Era un contadino, che lo pungolava con un bastone. Il proprietario del campo, nel suo giro mattutino si era trovato fra i piedi quel corpo addormentato. Aveva capito subito l’accaduto dai resti dei pomodori abbandonati per terra. Il giovane cercò di alzarsi e tentare qualche passo, ma la scorpacciata di pomodori acerbi stava facendo il suo effetto. Fu preda di crampi violenti, si ritrovò piegato in due dal dolore, rannicchiato su se stesso, assomigliava a un enorme ragno.
Il padrone si rese conto della situazione e non poté evitare di aiutarlo.
Un po’ di pomodori rubati non era un gran danno, e quello strano ragazzo gli faceva pena nel suo dolore, chiamò due lavoranti per accompagnarlo su un carretto, fino a casa sua. Da quel giorno Aniello Amitrano, il contadino padrone del campo di pomodori, non finì mai di ringraziare il destino, per aver messo sulla sua strada quel ragazzo. Lui e la moglie non avevano avuto figli e vivevano con questo cruccio nel cuore.
Avevano acquisito una particolare sensibilità nei confronti dei bambini e dei giovani. La donna fu molto felice di avere qualcuno che le facesse compagnia e nello stesso tempo, qualcuno da accudire. A lei non importava se quello strano giovane fosse brutto, curioso e sgraziato, era sempre una persona bisognosa d'affetto e di cure. Leggeva negli occhi del ragazzo tristezza e malinconia, ma vedeva anche una profonda bontà. Ahmed non era abituato a ricevere attenzioni; si sentiva a disagio. Voleva ad ogni costo ricambiare quest'interessamento da parte dei due anziani coniugi. Si adoperava in tutti i lavori, sia nei campi, sia in casa e in tutte le occasioni. Non voleva deludere i suoi benefattori.
Passarono giorni, mesi, anni. I due contadini si affezionarono a tal punto che decisero di normalizzare la sua condizione nei confronti della legge. Lo riconobbero come figlio adottivo e gli diedero il loro cognome. Da quel giorno il suo nome fu Gennaro Amitrano figlio adottivo di Aniello e di Carola Concetta.