Un giorno, un mese, un anno. Quanto tempo è passato! Un giorno, una settimana, un mese, un anno, da quando ho preso il mare. Un giorno da quando sono partito ed ho visto finire in acqua mio fratello. Gli ho teso la mano. Mio fratello non sapeva nuotare, (aiuto mio fratello è caduto in acqua!) ma ho ricevuto solo un colpo di frusta in faccia da chi ha voluto i miei ultimi euro per avere un passaggio in quella barca, in quel maledetto barcone, dove eravamo stipati come cose, stretti uno accanto all'altro, uno sull'altro, donne bambini uomini, sacchi, reti e fagotti come cose viaggianti. Ci dicevano... vuoi cambiare vita ? Vuoi attraversare il mare? Allora devi pagare, devi pagare e noi ti portiamo in un altro mondo. Mio fratello era entusiasta, credeva alle parole di quegli uomini e mi ha convinto, ci ha convinto che questo viaggio si poteva fare, si doveva fare. In Africa non c'è speranza. Tutto è orientato a creare infelicità. Sono pochi che comandano perché hanno le armi e sparano, sparano su chi non è dalla loro parte. Si divertono a fare i padroni sulle nostre terre. Si divertono a razziare le nostre cose e ci fregano le donne non perché sono innamorati ma per soddisfare la loro violenza. Ci rubano la poesia e allora l'unico modo è fuggire, non perché sono un codardo ma perché non ci si può opporre da soli alla forza di chi ti odia e ti considera di sua proprietà.
Allora abbiamo attraversato il deserto. Un deserto, dove veramente non c'è nulla e si perde la vita. Alcuni sono rimasti fra la sabbia che come mare di pietra frantumata mosso dal vento, copre subito, seppellisce immediatamente le proprie vittime. E così è stato per Mohamed, per Sishah per Fatima, miei compagni di viaggio. Ho capito che il deserto è un viaggio senza ritorno, una prova per verificare la resistenza alla brutalità della vita, un viaggio che porta alla fine delle nostre speranze e modella alle tempeste esistenziali, un giorno luogo di preghiera, oggi di disperazione e di morte. I capi carovana ci picchiavano per superare le nostre debolezze ed io avevo pagato il loro viaggio per farmi picchiare. Non c'era tempo per reagire, dovevi sottostare e ringraziare che loro ti avevano permesso di sperare in un futuro, dopo aver abbandonato la tua terra dove i soldati ti violentavano, la fame ti corrodeva, l'ebola poteva colpirti senza speranza. Si, lo mettete in conto tutto questo? E allora tutte le prepotenze dei capo carovana mi parevano acqua fresca in confronto a quello che avevo lasciato in quella terra, che non sentivo più mia perché mancava la dignità della vita, la libertà per la propria esistenza.
Povero me, poveri i miei compagni di viaggio rimasti fra la polvere della sabbia, dispersi chissà dove, chissà dove!
E il viaggio continuò. Con le piaghe ai piedi, con le cicatrici sulle spalle, sotto le grida dei capi ed il canto ripetitivo della folla che riusciva solo così a superare la fatica ed i morsi della fame. L'arsura ci corrodeva i corpi e la fame bruciava nello stomaco tanto che ci furono momenti che non sentivamo più il bruciore del sole ma provavamo solo la disperazione della nostra scelta di avventurarci per cambiare vita, rischiando ogni minuto la nostra vita. Ma quanto vale la vita in questa condizione? Meno che niente! Sei solo un cliente per i capi, un insieme di carne per gli animali selvatici! Come se avessero dimenticato il nostro Dio che sembrava averci, a sua volta, dimenticati! Eppure la volontà di raggiungere un Nuovo Mondo, quel mondo che la TV ci propina nella pubblicità, dove le famiglie sono felici, fanno colazione assieme, mangiano i biscotti fragranti appena sfornati, dove le ragazze usano i collant e mostrano le loro belle gambe, era talmente forte che ogni sofferenza, ogni lutto mi sembrava niente. E raggiungemmo il porto. I barconi ci aspettavano per caricarci come carne da macello. Ma lì, oltre quell'orizzonte c'era la libertà. Solo questo mi faceva dimenticare le fatiche del viaggio, le piaghe ai piedi, le cicatrici della guerra. E salimmo in quel barcone per immetterci nel buio della traversata. Mi sembrava essere in una nave di crociera anche se il barcone era una carretta che a malapena stava a galla. Quel legno era tutta la nostra speranza, quel gelo notturno la certezza di essere vivi e di sentire il dolore perché si era ancora vivi. Ci buttarono in acqua perché c'era il rischio che una motovedetta tunisina ci aveva avvistati e i capi non potevano rischiare. Ho visto tanta disperazione negli occhi di chi entrava in acqua, di chi non vedeva niente e non sapeva nuotare. Anch'io non avevo visto mai il mare e non sapevo nuotare. L'acqua entrò dentro i miei polmoni, che diventarono otri e bisacce. Mi calai nell'abisso assieme alle donne ai bambini, disperati di morire nel buio della notte e lì vidi il mio Dio che mi accoglieva nelle sue grandi braccia. Non maledissi nessuno. Solo me stesso perché avevo creduto che la vita potesse essere diversa da quella che mi era toccata. Forse sarei dovuto rimanere a casa e morire sotto i bombardamenti . Ma forte era la speranza di vivere anzi di rivivere. Fu questo azzardo, che mi costò la perdita della mia vita.