Il sole c’è e allora forza, bevi il caffè, fatti la doccia, metti i pantaloni e vai, che non si prevede pioggia né oggi né domani e camminare fa bene.

Felpa, zaino, cappello, scarponi. Su, non essere pigra, non pensarci anche mentre t’infili i calzini, non chiederti cosa avrebbe detto lui di quest’aria frizzante.  Lo sai, avrebbe tirato fuori la macchina digitale dallo zaino, avrebbe scattato foto su foto, costringendoti in posa, immortalando cime e nuvole, camosci così piccoli e lontani che li vedeva solo lui. Avrebbe detto le parole che sai, le parole che ti parevano banali e ora ti mancano come manca l’aria a uno che affoga.

Sei venuta quassù, hai affittato la solita casa, forse perché le foto non ti bastano, forse perché hai paura di dimenticare anche un solo dettaglio.

Coraggio, metti un piede avanti all’altro e attenta a non inciampare. Il sentiero è ripido, bagnato, lui stava sempre dietro casomai tu scivolassi. Ora sei sola e hai già l’affanno, ma l’odore dei pini ti aiuta a respirare.

Ecco la prima cascata, poi la seconda. Qui è dove ti levavi sempre le scarpe e lui restava a guardare mentre immergevi i piedi nell’acqua fredda. Non ne hai voglia, non ti sembra più così divertente. Allora, dai, prosegui.

Eccoti in cima, finalmente, sull’altopiano dove il fiume gorgoglia e le marmotte urlano. Ne scopri una lì davanti, di vedetta, pronta a lanciare l’allarme alle compagne. Intorno la consueta pace, il silenzio sovrumano dei monti. Non c’è anima viva qui.

Invece no, qualcuno siede a gambe incrociate sotto la roccia e guarda in alto.  Punti il binocolo ma non scorgi scalatori aggrappati alla parete. Allora cosa sta fissando l’uomo?

Gli arrivi alle spalle, in punta di piedi. Non si volta, non ti ha nemmeno sentito. Ora anche tu puoi vedere ciò che il suo corpo nasconde. Una lapide da cui penzola una corda. È davvero quello che pensi la macchia scura sulla corda?

 

           In ricordo

                   di

     Antonio Marradi

      19 Agosto 2001

 

 

Siedi accanto all’uomo, che neanche ora si volta.

«Era suo figlio?»

«Sì.»

Quasi due ore di salita e lui, vecchio com’è, deve farsela ogni volta, per poi investigare le rocce che conservano ancora una traccia del suo ragazzo, forse l’impronta di una mano, o forse l’eco di un urlo. Si chiede cosa ha provato quando gli è mancato l’appiglio, quando la pelle si è lacerata e la corda ha frustato l’aria.

Sai cosa sta pensando perché è ciò che hai pensato anche tu la notte che ti hanno fatto vedere il corpo. Ti è rimasto dentro lo scricchiolio del carrello, il fruscio del lenzuolo.

«È suo marito?» hanno chiesto. E tu non riuscivi a dire sì, perché, se lo avessi detto, il corpo che avevi di fronte sarebbe diventato davvero di tuo marito.  Lo fissavi incredula, ti chiedevi se si era accorto di morire mentre l’auto si ribaltava, se era ancora vivo nel fosso. Ti domandavi perché da sua madre quella sera lo avevi lasciato andare solo. «Vai da mammina?» avevi chiesto sarcastica e lui aveva alzato le spalle. Sapeva che il nervoso ti sarebbe passato presto.

«L’ho portato io, in montagna, mio figlio, la prima volta. Gli ho comprato pure una piccozza.»

«Anche mio marito è morto.» Ecco, l’hai detto, hai pronunciato l’impronunciabile. Di solito usi frasi come “lui ora non è qui”.

«Non ci si perdona più niente, vero?»

«Già.»

Chi dei due ha parlato? È la tua voce o è quella di quest’uomo anziano che ora sta piangendo?

«Dicono che la morte è un atto di generosità. Dobbiamo lasciare il posto a chi viene dopo di noi. Ma mio figlio era giovane.»

«Ho smesso di chiedermi perché mio marito è morto. Se anche un motivo ci fosse, ciò che provo non cambierebbe.»

«Gli amici sostengono che mio figlio è scomparso facendo ciò che più amava, che quando arrampicava metteva in conto di morire. Io non lo credo.»

«Non si mette mai in conto di morire.»

Ora, se la tua vita fosse un film americano, abbracceresti quest’uomo sconosciuto e ognuno di voi sfogherebbe il suo dolore, lo lenirebbe, dividendolo con l’altro. Ma non è un film e così non ti muovi, non gli prendi la mano, non gli porgi nemmeno un fazzoletto. Rimanete in silenzio, a un metro di distanza, e lui continua a piangere e  fissare la roccia.

Tu, intanto, ascolti il grido dell’aquila, tocchi il lichene e i ciottoli lavorati dal movimento del ghiacciaio. Ti chiedi se non tutto è perduto, se una vibrazione almeno si conserva. Sai che l’uomo che ti siede accanto prova il tuo stesso strazio e si sta ponendo le stesse domande

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