Accidenti al professor Zimmergaut. Chi glielo aveva chiesto di farmi quel buco nel cervello?
A dire le cose come stanno, la colpa è di mia madre. Sì, d’accordo, ma io? Si sono informati se mi stava bene? «Ma tu non eri in grado d’intendere e di volere» direbbero loro. Loro sono la mia famiglia. «E stavo meglio!» risponderei io, anzi, rispondo io, perché da quattro mesi a questa parte non faccio che ripeterlo a tutti. Per la precisione, quattro mesi meno venti giorni. I primi cinque li ho passati a riprendere conoscenza, gli altri quindici ad assestarmi un po’. La vera tragedia è cominciata dopo.
Quando a mia madre consegnarono un fagotto sanguinolento nelle braccia, una ventina d’anni fa, mica se n’accorse subito che ero mongoloide. Down, come dicono ora, anzi, zimmergaut, dopo l’operazione. Le venne in mente il giorno dopo, quando sentì le altre dire ch’ero un disgraziato. La più gentile mi chiamò mostro.
Voleva buttarmi via, sul momento, poi ci ripensò e mi portò a casa. I primi tempi fu come con gli altri tre che aveva avuto: poppata, pipì, bava. Tutto come da copione, che quasi le sembrava impossibile che non fossi normale. Voglio dire, lei un bambino ce l’aveva, lo annusava, gli ciucciava le manine, gli ficcava in bocca la tetta e quelle cose lì.
Fu quando cominciai a ballonzolare di qua e di là sui miei piedi che si accorse della differenza. Capire capivo anch’io, beninteso, ma come capisce un cane. Vieni qui, bada lì, hai fame? Però ero brutto, e peggioravo ogni mese. Bavetta alla bocca, nuca spiaccicata, mani grosse sempre ficcate fra i denti, occhi da cinese ma da cinese scemo. Di dire mamma non se ne parlò per anni, ed anche quando Zimmergaut mi ha trapanato il cranio, ancora non mi veniva. I fratelli avevano paura di me. La mamma mi voleva bene. Però piangeva tutti i giorni.
Ma questi erano problemi della mamma, non miei. Io ero a posto. Passavo i pomeriggi a smontare le bambole di mia sorella Irene. Lei urlava e io ridevo, in quel modo bavoso in cui ridevo io, e poi accendevo la tivù. Tutto, dai cartoni animati al detersivo contro l’unto, era pieno di colori, suoni, luci, persone carine che sorridevano. Niente a che vedere con quello che fanno adesso in televisione.
E pensare che mi sono fatto vent’anni così! Mica passava il tempo allora, ero io che c’ero in mezzo. Per vent’anni ci sono stato dentro e non mi ha dato noia. No, noia era una parola che non conoscevo. Ero come un neonato nella culla. Mi guardavo le mani e le mani bastavano. Succhiavo il pollice e nel pollice c’era tutto. Una bellezza.
Anche quando mia sorella Irene affogò nella vasca dei pesci rossi al giardino pubblico (perché io ce l’avevo spinta mentre ma’ parlava con la giornalaia) rimasi lì tutto beato a guardare i pesci che le addentavano le ciocche color carota.
Non sapevo ancora che da qualche parte c’era un maledetto professor Zimmergaut che già faceva esperimenti con le scimmie nell’attesa di aver sotto mano me.
Fu il fratellone a dire a ma’ che in Austria questo cervello pieno di birra operava quelli come il sottoscritto. Sostenne che ero senza speranza, che non mi si poteva più tenere in casa, che prima o poi avrei fatto fuori tutta la famiglia.
Povera mamma, mi sbatté subito sul primo treno per Vienna. Non mi voleva abbandonare, ci teneva a me e, sotto sotto, covava pure la speranza che l’imbecille di famiglia le diventasse il primo della classe. Magari le prendeva anche la laurea.
Mi visitano, mi punzecchiano, mi passano ai raggi x in tutte le posizioni, come una braciola sulla gratella e poi via, in sala operatoria.
Mi sono svegliato quattro mesi fa e la prima cosa che ho visto è stata una vecchiaccia che russava sulla sedia accanto. Tale vecchiaccia poi risultò essere mia madre. Posto che era impossibile che nei cinque giorni della mia operazione fosse invecchiata di trent’anni, dovetti ammettere che forse era sempre stata così, solo che prima non me n’ero accorto. Io l’avevo sempre vista bella, con i capelli rossi come quelli dell’Irene, e giovane. Ma si sa, prima ero scemo.
Quando mi riportarono a casa, barcollai in qua ed in là senza riconoscere niente. I muri erano più piccoli di come li ricordavo, il soffitto più basso, mia sorella più sgraziata, la cucina più sporca, il cane spelacchiato e vecchio.
Scoprii, inoltre, di non possedere un padre. Quando chiesi notizia di una bambinella coi riccioli rossi e le ginocchia sempre sbucciate, mi comunicarono che l’avevo affogata qualche anno prima.
Lo specchio, di cui non m’ero mai curato, se non quel tanto per sorridere a un altro bambino come me, mi rimandava ora l’immagine di un essere d’irrimediabile bruttezza, dai lineamenti alieni e grottescamente orientali. Una specie d’incrocio fra un tartaro ed E.T. Sinceramente, non trovavo di gran conforto che adesso, come fece notare padre Lattanzio, “il mio volto risplendesse dell’eccelsa luce dell’intelletto”.
Nei giorni che seguirono, scoprii che Dio non esiste e nemmeno Babbo Natale, scoprii che mio fratello mi odiava e mia sorella aveva paura di me. Scoprii che i vicini avevano smesso d’avere pietà, e volentieri mi avrebbero dato in pasto al cane. Mi accorsi che quelli che avevo sempre creduto giganteschi fiori di cartapesta erano cartelloni pubblicitari; appresi che si possono comprare tre fustini al prezzo di due e che i clacson non sono canne d’organo.
Anche oggi, che lavoro come aiuto di un barista, non capisco perché la città m’appaia così laida quando la sera me ne torno a casa lungo Corso Garibaldi illuminato dai lampioni. Stacco alle sei, raccolgo gli avanzi per il cane, poi mi fermo a chiacchierare coi barboni di Ponte S. Giovanni. Persino ma’ ha smesso d’aspettarmi alla finestra ormai.
Però forse non tutto è perduto. Ieri, al bar, mi è capitato sott’occhio un annuncio. Sembra che ci sia un professore, a Milano, uno in gamba che aiuta gli zimmergaut.
Mi ci vorranno almeno dieci anni di risparmi per mettere da parte la cifra che mi hanno spiattellato stamani per telefono. Ma ce la farò. Risparmierò sul cinema e sui giornali, farò gli straordinari ed alla fine riuscirò a tornare come prima.