I due uomini l’avevano prelevata alla fermata della metropolitana mentre lei saliva le scale, l’avevano scaraventata in macchina ed erano partiti a razzo verso la periferia della città. Dopo un tortuoso tragitto, per non darle modo di riconoscere la strada percorsa, l’avevano condotta nei tetri corridoi di un cimitero, fra lapidi e cripte. Per qualche minuto si erano assentati e lei era rimasta sola al buio e al freddo di quelle tombe di marmo. L’unica luce erano i lumini votivi posti davanti alle foto dei defunti.
Tremante di paura cercava di orientarsi in quel posto così orribile. I due tornarono con una coperta e un cuscino erano intenzionati a portare a termine il loro piano di violenza nei suoi confronti e lo volevano fare con qualche comodità, il pavimento umido e sporco non era certo un buon giaciglio per passare una notte di sesso a spese di quella ragazza.
Lei si era resa subito conto che, anche se avesse urlato con tutto il suo fiato, nessuno poteva intervenire. Il silenzio fra quelle cripte era tale che faceva accapponare la pelle. Il leggero parlottare dei due rimbombava sinistro fra le lapidi, un suo grido avrebbe scatenato un’eco mostruoso, ma non sarebbe servito a nulla, le pareti marmoree e circoscritte in un lungo corridoio non avrebbero permesso alle sue urla di dilagare verso l’esterno. La scelta di quel posto era ampiamente studiata e forse anche già sperimentata.
I due si servirono lautamente del suo corpo e dopo aver soddisfatto le loro smanie di frustrazioni sessuali, la lasciarono inebetita per terra distesa seminuda sulla coperta che almeno era servita a evitare di subire la violenza su un letto di foglie e di fiori secchi ammucchiati dal vento sotto le lapidi.
La ragazza dopo essersi resa conto che tutto era finito si riprese dallo choc, intontita dal dolore e ferita riprese fiato e, nonostante le sofferenze che non le permettevano nemmeno di reggersi in piedi e lo sconforto morale che provava, cercò di alzarsi. Si appoggiò con le mani al muro di marmo che la circondava. Il contatto gelido con la pietra la scosse procurandole un brivido gelido nelle ossa, ma riuscì a mantenersi in posizione eretta.
Si accorse che non aveva più biancheria intima, solo un brandello di vestito che svolazzava a ogni tentativo di passo in avanti. Lungo le gambe, un rivolo caldo le bruciava la pelle. Era il suo sangue, il risultato delle sevizie subite, tuttavia, rimase in piedi e cercò di allontanarsi da quel tunnel freddo e dall’odore nauseabondo.
La puzza dei fiori marci e dei gas che esalavano dalle tombe rendevano l’aria irrespirabile. Camminava a rilento, appoggiandosi alle nicchie, dove c’era più di un lumino acceso riusciva anche a leggere il nome del defunto e la durata della sua vita.
“ Maria Pecorelli i 1949 – 1972 “
ecco - pensò - anche questa donna ha vissuto poco, chissà come sarà morta, aveva pressappoco la mia età. Anche io morirò presto dopo questa sera, non so se vale la pena vivere ancora.
A ogni passo sentiva fitte lancinanti all’interno del corpo, le braccia e le gambe erano deboli e vuote di energia. Stava sopportando una sofferenza infinita, per non svenire si appoggiava, si fermava e come una droga respirava le esalazioni mefitiche che le davano disgusto, ma la tenevano sveglia.
I volti che dalle foto ingiallite dl tempo la guardavano, sembravano compatire la sua sorte, ai loro tempi azioni di questo genere non erano pensabili, forse c’era dell’altro, ma certamente non questa frenesia di stupro che stava dilagando in ogni parte del mondo. La guardavano nel suo vagare verso la fine delle sue sofferenze, senza sorridere con le facce immobili dimenticate nel tempo.
Vide in fondo al corridoio di marmi un chiarore e, con volontà estrema, si diresse verso quella parvenza di luce sperando di uscire al più presto da quella situazione. Arrivata all’angolo dove terminava la parte coperta mise fuori la testa quel tanto che bastava per vedere oltre il muro, non voleva incappare in qualche brutta sorpresa.
Quello che vide la rincuorò, proprio di fronte c'era un vialetto scarsamente illuminato che conduceva all’uscita. C’era ancora il cancello principale da superare, ma già sapere di trovarsi vicina alla strada le mise addosso la forza necessaria per attraversare lo spazio aperto fino ad arrivare fino alle sbarre incrostate di ruggine, si afferrò a esse rompendosi le mani nel ferro arrugginito, non sentì dolore. Riprese fiato e pregò, pregò e, con le ultime forze rimaste… spinse… era aperto!