Strinsi i pugni sanguinolenti. Ero sbronzo e lo sapevo. Lessi sul muro now or never, adesso o mai. Iniziai a piangere, mi inginocchiai.
"Cosa diavolo fai ragazzo?" sentii una voce dietro di me "Ragazzo mi senti?"
Ragazzo pensai, vado per i 21 e mi chiama ragazzo, forse lo ero, ma non mi sentivo tale. Mi picchiettò sulla spalla, fui sul punto di colpirlo con un destro, ma voltandomi vidi le sue rughe, i due cespugli bianchi sopra gli occhi spenti, quei radi capelli e quel cappello lacerato di un blu sbiadito da marinaio.
Per evitare l'impatto con il suo zigomo, cercai di virare il pugno, e cosi facendo fini di nuovo a terra.
Sembravo più ubriaco di quello che ero. una grossa risata fece eco tra i vicoli.
"Coraggio alzati, vieni...eh...ti aiuto"
"Ci riesco, stia fermo" mi appoggiai al muro, e provai ad alzarmi.
"Andiamo ti offro un bicchiere al bar qui all'angolo."
Facevo fatica a seguirlo, era arzillo per la sua età, soprattutto di testa. Per la sua età? Non avevo la minima idea di quanti anni potesse avere. Si sedette nell’angolo più buio del locale, su un vecchio tavolino di noce, con al centro una candela. La fiammella lottava contro le cascate di cera ormai solide che la sovrastavano. Rimasi a guardarla per alcuni minuti, forse più.
La mia mente vagava, il fuoco, il sole, la luna, l'universo, la vita, la morte, non eravamo altro che polvere, misera polvere. sentivo parlare in sottofondo, dovevano credere che fossi matto.
"...Era in ginocchio..no no qua fuori..ordinate?...non... cristo santo..."
Mi sentivo leggero. Vidi la fiamma sempre più vicina poi due braccia mi afferrarono.
"Voglio andare all'inferno" urlai "Non salvatemi da esso" mi dimenavo scalciavo e mordevo. "Ragazzo calmati sei tra noi..sono io" mi rilassai, Cazzo ero stato così vicino all'inferno.
“Beh sarà per la prossima volta” pensai. Mi lasciai cadere sulla sedia e socchiusi gli occhi. Poco dopo vidi davanti a me una traboccante birra scura; ne bevvi un sorso, in quell'istante mi sembrò di aver raggiunto l'orgasmo, la pace dei sensi.
"Ragazzo!" mi scosse "Ragazzo! Non addormentarti, ti pago da bere e tu dormi!?"
Rimasi in silenzio.
"Che fai nella vita?"
"Ordina un'altra birra poi ne riparliamo."
L’altra birra arrivò, poi un’altra e un’altra ancora. Vedevo delle ombre offuscate davanti a me, sentivo rimbombanti rumori, le palpebre mi calavano, poi tornavano su, come un dondolo, su e giù, su e giù, su e…
“Bentornato da noi figliolo” sentii questa voce familiare, cercai di guardare da dove provenisse, ma un fascio di luce solare mi accecava. Poi lo vedi: era il vecchio della sera prima, quello delle birre. “Ahm..eh..” avevo un mal di gola atroce, la bocca impastata del dopo sbornia.
“Che ci faccio qui?”
“Sei svenuto ieri notte, ho preferito portarti qui, e poi non sapevo neanche dove abitassi"
“Si beh, ti ringrazio, ma ora devo andare” feci per scendere dal letto, ma un urto di vomito mi colse di sorpresa. Vomitai.
“Cazzo.Mi dispiace..io..”
“Tranquillo, avresti dovuto vedere ieri notte” strozzò una risatina, poi tirò una lunga boccata dalla pipa “Mi hai riempito tutte le bacinelle che avevo in casa” e scoppiò in una grassa risata con vampate di fumo azzurro che uscivano dalle narici.
“Beh senta mi dispiace, ma ora devo proprio andare” scesi dal letto, e mi diressi verso l’unica possibile uscita della stanza.
“Ragazzo! Un ultima cosa” si fermò, poi riprese “Ti serve un lavoro?”.
Cazzo se mi serviva. Rimasi in silenzio, pensavo.
“Di che si tratta?”
“Ho un amico giù al porto, potrebbe prenderti come scaricatore. Tieni.”
Mi tese un foglietto giallognolo, stropicciato.
“Domani mattina vedi di essere a questo indirizzo, alle 8 precise.”
“Grazie mille di tutto, non so come ringraziarla”
“Naturalmente offrendomi qualche birra al bar giù al molo, in caso ti assumano.”
“Ci conti e a presto."
Uscii dalla porta, mi trovai subito in cucina, sul tavolo c’erano alcune birre lasciate a metà, ne presi una, poi due pezzi di pane raffermo e una ciotola con delle croste scure sul fondo. Attraversai la cucina e mi ritrovai in bagno, un odore nauseabondo mi assalì, le mie bacinelle ricolme erano ancora lì, vicino alla latrina.
Mi diressi verso l’altra porta, era quella giusta. Scesi le rampe di scale a due a due, doveva essere al quarto o quinto piano, perché non finivano più. Aprii il portone, ero fuori. Finalmente. Rimaneva solo da capire dove mi trovavo. L’odore di pesce lercio mi confermò di essere in prossimità del molo, ma in una città portuale questo odore accompagna gran parte della tua giornata. Ero circondato da un complesso di palazzi fatiscenti, proprio come nella zona dove abitavo io, ma non era quella. I muri scrostati, le finestre ormai ridotte a brandelli da tarme e dall’aria salmastra, facevano credere che fossero disabitate, ma poi le vedevi.. Quelle facce smunte, sudicie che ti fissavano, attraverso la fessura tra uno scuro e l’altro, ti osservavano, erano le telecamere della città, a loro non sfuggiva nulla. Con l’abitudine avevo imparato a non curarmi di loro, presi la prima via, che faceva angolo con il palazzo, e iniziai a correre. Non so dove volevo andare, non avevo nulla, o poco più. Una specie di topaia che dividevo con ragazzi che cambiavano continuamente, quattro soldi che racimolavo dai dei lavoretti non del tutto legali e una ragazza, se così si può chiamare, che faceva la barista e la prostituta. Decisi infatti di andare al bar da lei, il sole stava tramontando proprio adesso, il suo riverbero rosso sulla linea dell’orizzonte che si confondeva con quella dell’oceano.
Dopo una ventina di minuti arrivai giù al porto. Non era difficile orientarsi in quella città, per arrivare al porto bastava andare verso il basso, tutte le strade convogliavano come un imbuto verso l’enorme massa d’acqua. Il bar era proprio li, in una vicolo cieco senza neanche una luce, solo un insegna a led sopra l’entrata, OAK 1895, con la K che si illuminava a intermittenza, con quel fastidioso rumore tipico dei led, zzzh zzzh, che mi dava sui nervi. Entrai. Una folta folla di gente era assiepata attorno al bancone, altri erano ai tavoli, altri erano appartati con delle prostitute negli angoli più scuri del locale. Quando lei mi vide, gettò lo straccio, sul lavandino e chiamò qualcuno dalla cucina perché la sostituisse un attimo. Venne verso di me, mi prese la mano e mi condusse su dalle scale, poi percorremmo tutto il corridoio di fronte a noi, porte a destra e a sinistra, dalle quali provenivano, singhiozzi, mugolii, urla di passione, pianti.. Arrivammo in fondo al corridoio fino alla scaletta a pioli, che saliva in verticale fino a fermarsi contro il soffitto in legno. Lei iniziò a salire, la seguivo. Aprì la botola, una fresca brezza mi investì, e poi fui fuori. Intorno a noi le montagne, poi lo sconfinato oceano, le piccole luci della città, la luna. Lo conoscevo bene quel panorama, ma ogni volta era sempre come fosse la prima.
“Ehi, penso di aver trovato un lavoro... uno serio”
“Oh davvero amore?! Sono molto felice”. Era ormai da un anno che ci frequentavamo e ancora dovevo capire se fingeva o no, dopotutto io ero l’unico “cliente” che non pagava per godere della sua presenza, anche se restava pur sempre una sgualdrina.
“Si, un vecchio lupo di mare, mi ha detto di recarmi domattina da un tale.”
“Beh, dobbiamo festeggiare tesoro, vado a prendere delle birre” ridiscese la scala a pioli e scomparve.
Ogni volta che mi trovavo da solo, nel buio della notte, il mio cervello cominciava ad animarsi. Iniziavo a chiedermi che senso avesse lavorare una vita, che senso avesse rendersi uguali alla massa, sposandosi, facendo figli, acquistando un’auto di lusso o vestiti firmati eccetera, poi però i miei pensieri viravano sulla signora in nero. La milady che comandava questo mondo di pazzi. Colei che arrivava con calma sul suo cavallo argentato portandosi appresso la sua falce affilata. La morte era la cosa che mi dava il tormento, il pensiero fisso. Non riuscivo a togliermela dalla testa. Mi chiedevo come si potesse vivere sapendo che da un secondo all’altro saremmo potuti sparire, e nulla avrebbe più avuto senso, né ciò che abbiamo né ciò che dovevamo fare. Nulla. Né le paure o gli amori, né i panini al prosciutto, né le strade sterrate o i pagliacci, nulla. Nulla di nulla. Quindi perché fasciarti tanto la testa finché si è in vita. Che branco di scemi eravamo.
“Eccomi” mi destò dai miei pensieri. Lasciò le birre per terra e mi si gettò al collo. Affettuosa per essere una puttana, pensai. Mi baciò sul collo io stetti fermo, presi una lattina, e la finii in due sorsi. Lei non beveva molto, le portava praticamente per me. Sentivo il calore che emanava, mi voleva, mi desiderava. Ma quella sera ero distratto, pensavo ad altro, lei se ne accorse e non fece altro che venire a sedersi tra le mie gambe appoggiando la testa al mio petto. Fece passare le sue braccia intorno a me e mi strinse.
“Mi prometti che non mi abbandonerai?”
“Mai. Te l’ho promesso” non avevo nemmeno ascoltato cosa mi aveva detto, ma dopotutto ero del pensiero che si dovesse mentire alle persone, cioè dare loro ciò di cui hanno bisogno, ciò che vogliono sentire. Poi dimenticheranno prima del previsto ciò che gli è stato detto.
Bevvi un altro paio di birre, e ogni tanto le davo dei piccoli baci sui capelli, che profumavano di lavanda, poi chiusi gli occhi.
Quando mi svegliai, era ancora distesa su di me, il sole risplendeva offuscato da qualche nuvola. Sapevo che ormai le 8 erano passate, ma decisi lo stesso di recarmi al porto per il nuovo lavoro.
La svegliai con un bacio: “Tesoro, ci vediamo dopo, vado a vedere per il nuovo lavoro.”
“Non vuoi fare colazione con me?” mi chiese.
“La farò al mio ritorno.”
Scesi la scala a pioli, e mi diressi giù per le vie del paese.
Dovetti chiedere un paio di volte per trovarla.” Bene la via è questa” pensai “41...42...43...44”, mi fermai. Sulla porta v’era appeso un cartello, tutto sporco, sul quale si intravedeva: AFFITTASI. “Muori figlio d’un cane” pensai, mi voltai, estrassi una sigaretta e l’accesi.