«È tardi, Mario, lasciami andare».
Si era buttata fuori dell’auto, aveva armeggiato con la serratura, per un attimo la luce aveva illuminato l’androne. Portava una maglia che le stava un po’ grande. Gli era rimasta impressa l’immagine delle sue spalle magre che sparivano dentro il portone.
Le aveva appena chiesto di sposarlo.
«Sabri, aspetta… dove corri? Dimmi almeno sì o no.»
«No.»
Erano gli anni ottanta, gli anni delle prospettive, del futuro ancora aperto. Non l’aveva più rivista.
Fino a questa domenica pomeriggio.
Sta con un’amica, una che lui non conosce, parlano sottovoce nell’intervallo del film. Per ironia della sorte, anche adesso la guarda di spalle. Il top elasticizzato la fascia, c’è uno sbuffo di carne attorno alle bretelline e dei brufoli rossi sulla pelle.
Sua moglie si agita sulla sedia accanto, accavalla le gambe, poi le scioglie. Mario si irrita, le dà una gomitata. «Smettila, Carla. Infastidisci tutta la fila.»
Carla sospira, s’irrigidisce, ma poi riprende subito le odiose contorsioni sulla sedia del cinema. Sotto le suole dei suoi sandali bucce di noccioline scricchiolano e il rumore gli trapana il cranio mentre fissa Sabrina, senza staccare gli occhi dalle sue spalle ora appesantite, dal laccio del reggiseno che le segna la carne.
Si erano conosciuti a una di quelle feste in casa, con le ragazze da una parte e i ragazzi dall’altra, le tartine fatte a mano, i dischi di vinile.
Allora non aveva seno, gli occhi si mangiavano tutta la faccia, le gambe erano due stecchi che sbucavano dal vestito. Gli era piaciuta subito, anche con l’ombretto blu sbaffato, anche se per tutta la sera aveva parlato solo di come in Groenlandia si ammazzano i cuccioli di foca a bastonate, anche se lo aveva costretto a setacciare il buffet alla ricerca di qualcosa che non contenesse carne animale. Siccome non c’era nulla, lui era sceso di corsa dall’ortolano all’angolo e aveva acquistato un mazzo di carote. Se lo era fatto incartare per bene - l’ortolano l’aveva guardato come fosse uno scappato dal manicomio - poi aveva rifatto i gradini a due a due. «Per te, Sabrina», le aveva detto inginocchiandosi.
Si erano messi insieme subito, avevano girato in macchina per la campagna, avevano guardato il tramonto sull’Arno, avevano fatto l’amore nella mansarda di lei, sotto la finestra dalla quale si vedeva un pezzo della Torre Pendente.
Il biglietto che lei gli aveva scritto, non l’aveva capito. Gli era arrivato dopo che si era fatta negare al telefono, che aveva cambiato la serratura della mansarda. Non si parlava d’amore nel biglietto, non c’era scritto se gli volesse bene o no, ma si accennava alla ricerca della felicità, all’impossibilità di fermarsi nello stesso posto e con lo stesso uomo.
Gli erano sembrate frasi da esaltata, da femminista, da matta qual era.
“Una ragazza vale l’altra”, si era detto il giorno in cui aveva sposato Carla, e “un mestiere vale l’altro”, quando gli avevano offerto la cattedra d’inglese alle medie superiori.
Due file più in là Sabrina alza un braccio per guardare l’orologio, si lamenta dell’intervallo troppo lungo.
Non ha la fede, pensa Mario, non si è mai sposata. O forse è divorziata. Al giorno d’oggi, un matrimonio che regge è raro.
Più tardi, quando escono dal cinema, la vede attardarsi insieme all’amica a leggere il cartellone di un “prossimamente”.
Mario aiuta la moglie a infilare il golfino e il suo profumo acuto gli dà la nausea. Carla è una brava donna, ma qualcosa, pensa, gli sta stringendo lo stomaco, qualcosa che, forse, ha a che fare con la nostalgia, con la gioventù, con tutto ciò che avrebbe potuto essere e non sarà mai più.
Sbatte lo sportello dell’auto con violenza.
“Ho diritto alla felicità”, c’era scritto nel biglietto. Chissà se adesso Sabrina è felice?
Ma…?
Cazzate... Una vita vale l’altra.
Già.
Mario mette in moto l’auto, mentre intorno si accendono i lampioni.
Continua...