Qualche giorno più tardi il corpo di Don Michele Lo Iacono fu trovato riverso in una pozza di sangue ne La Zagara con una pietra in bocca, un’esecuzione in pieno stile mafioso e il mandante era chiaro: Don Calabrese.
Quando accadono cose di questo tipo esiste una sola legge: la Vendetta! Il Sangue chiama Sangue.
Calogero era solo un ragazzino quando suo padre fu assassinato e in cuor suo maturò la vendetta.
Si ricordò di quando Don Michele l’aveva portato alla sua prima lezione di caccia; gli disse che cacciare era come la vendetta: prima ti aggiri vicino alla preda, la studi, impari i suoi movimenti. Bisognava avere pazienza e colpire al momento giusto. "Pazienza, nervi saldi, trattieni il respiro, mira e spara". Così, il giovane Calogero attese, fece pratica con un amico di suo padre, un bandito che era considerato il Signore delle Montagne, un uomo fidato, ma sopratutto: un uomo d’onore.
L’uomo in questione era Salvatore Giuliano, da lui imparò a sparare e ad attendere. Lui e suo padre ogni tanto andavano sulle montagne per fare una partita a trissette, a scupa, ma il preferito di Don Michele e Giuliano era zicchinetta.
Quando Zu’ Michele fu assassinato Calogero volle vendicarlo e Giuliano, che voleva molto bene a padre e figlio, volle aiutare il giovane Lo Iacono nella sua impresa.
Nella calda notte del primo luglio 1950 il giovane Calogero, con la complicità dell’oscurità e degli uomini del bandito Giuliano, entrò nella villa estiva di Don Calabrese e salì nel piano dove era la sua camera da letto dove l’uomo dormiva il sonno dei giusti.
Calogero prese una sedia, si sedette a fianco del letto, appoggiò i piedi sul comodino e rimase nell’ombra, silenzioso per ben trenta interminabili minuti.
Infine pose la punta del fucile dritto sul muso del Don, che credendolo una zanzara, la scacciò via con la mano, l’insetto a canne mozze fece un’iperbole nell’aria e si riposò sotto il mento. Don Calabrese si svegliò e contemporaneamente Calogero accese la lampada del comodino vicino a letto; diede il tempo al Don di mettere a fuoco chi ci fosse.
Il ragazzo gli affondò la canna del fucile sotto il mento, sempre più in profondità quasi fino a bloccargli il respiro.
«Fastidioso vero? Non riuscire a respirare, ti viene difficile persino deglutire, non è così?» volle sapere il giovane.
Don Calabrese non riuscì a dire una parola.
«Immagino tu sappia chi io sia. Ma nel caso non lo sapessi o l’avessi dimenticato, mi presento. Sono Calogero Lo Iacono e sono venuto a reclamare la mia vendetta» disse il giovane con una tale freddezza che persino il Calabrese ne rimase stupito.
Il Don per tutta risposta gli rise in faccia, dicendogli che un picciotto così giovane come lui non avrebbe mai avuto il coraggio di ucciderlo con la casa piena di guardie e per di più tutto solo.
«E chi ti dice ch’io sia solo».
«Stai babbiando! No babbiari cu mmia. Credi ca mi scantu per così poco?»
«Sicundo te come sugnu trasito qui dentro?»
«Se scopro chi è il traditore che ti ha fatto passare io...»
«I tuoi uomini ti sono fedeli e questo lo hanno pagato con la vita...»
«Ma allora come...? Aspetta, ora ho capito, è stato quel bandito non è così, vero è? Be’ ora non ha più importanza».
«Già… ora non ha più importanza».
«Uccidere un uomo, non è come andare a caccia, garruso. Sei sicuro di voler oltrepassare il punto di non ritorno? Finiscila, l’omicidio di tuo padre... quelli erano affari...»
«No, non credo che fosse solo per affari. Sappiamo entrambi il motivo, non è così? È arrivato il momento, l’ora è tarda e bisogna tornare a dormire, perciò Don Giovanni Calabrese: Baciamo le mani...»
L’uomo non ebbe il tempo di reagire che il giovane Calogero Lo Iacono premette il grilletto del fucile facendo saltare in aria la testa del Don.
Si ricordò di un aneddoto raccontatogli da Giuliano. Quando c’era un regolamento di conti e uccideva qualcuno, Giuliano lasciava un foglietto sul cadavere con scritto sopra: “Così muoiono coloro che tradiscono Giuliano”.
Calogero volle così emulare il suo eroe, dalla tasca interna della sua giacca estrasse un mazzo di carte siciliane, scelse una carta con disegnata sopra una spada e la pose sul cadavere di Don Calabrese. Così, il giovane Calogero vendicò suo padre. Quel giorno una parte di lui morì e un’altra nacque come Don Calogero u’ Spadazzaru.
Gli uomini di Giuliano lo attendevano nella radura vicino alla villa così da garantirgli una via di fuga sicura verso le montagne.
Di lì a quattro giorni Giuliano sarebbe stato ucciso. La situazione per lui non era rosea come agli inizi della sua carriera di bandito, dopo i fatti di Portella della Ginestra del ‘47 i suoi sostenitori iniziarono a vederlo sotto luce più fosca.
La famiglia di Giuliano sapeva che prima o poi sarebbe successo qualcosa di grave, perciò prese i contatti con un'importante famiglia mafiosa italo-americana, questa aveva accettato di prendere sotto la sua ala protettrice il famoso Turi Giuliano, avevano messo a disposizione uno scafo che lo avrebbe condotto in America, ma i nemici lo trovarono prima.
Dopo l’assassinio di Calabrese, il giovane Calogero rimase nascosto per un po’ di tempo. Una sera, nel suo nascondiglio ricevette una lettera di un certo Don Corleone che lo invitava a salire sullo scafo destinato al “Signore delle Montagne” per nasconderlo in America, dove avrebbe lavorato per la sua famiglia, dato che ora si era fatto dei nemici importanti. "Considera questo favore che ti facciamo come un dono da parte del compianto Turi Giuliano". Queste erano le parole con cui Don Michele Corleone lo invitava a partire il prima possibile.
Don Calogero guardava una vecchia foto sulla scrivania del suo studio, lo ritraeva da ragazzino insieme a suo padre e a Giuliano con un cinghiale morto ai loro piedi.
New York era stranamente tiepida per quella stagione, niente di paragonabile a quel 10 luglio in Sicilia. In quel periodo il ricordo lo rendeva malinconico, pensava a suo padre e al suo grande amico che vagava nelle montagne.
Si riempì un bicchiere di whisky e bevve alla salute dei due uomini della foto.
Bussarono alla porta dello studio, era suo figlio Carmine.
«Don Calogero»
«Sì, che c’è Carmine»
«Ci sono dei problemi nell’autorimessa...»
Santiago Montrés