La mattina dopo si svegliò con tutti i sintomi di un’emiparesi facciale. Il suo bellissimo occhio sinistro, di un azzurro spettacolare, ora se ne stava là, semichiuso e incrostato di cispa lattiginosa. La bocca era scesa in giù di qualche spanna, la lingua sporgeva un pochettino all’angolo delle labbra.
Gli amici furono assai sorpresi e dispiaciuti, i dottori non si capacitarono della disgrazia. Fece subito domanda e ottenne i punti d’invalidità. L’avanzamento fu automatico nella sua amministrazione.
Non potendo giocare a tennis, per colpa dell’occhio che non inquadrava la palla come prima, Gino si fermava di più in ufficio. Il capo era contento del suo nuovo zelo. Comprarono il frigo con il tritaghiaccio all’americana. Tilde acquistò qualche vestito nuovo per sé e per i bambini.
Passarono alcuni mesi sereni, poi, una sera, Tilde accennò a un appartamento che aveva visitato nel pomeriggio. Era nel centro storico, disse, e anche molto luminoso. I ragazzi avrebbero avuto camere separate come desideravano.
«Ma, amore, non possiamo permettercelo», sorrise Gino.
«No, certo, con quello che guadagni adesso non possiamo proprio, ma se tu potessi fare un altro piccolo passo avanti…»
Dopo mezz’ora Gino era là, con la lingua di fuori, che inghiottiva cinque gocce di acido farnetico. Nella nottata ebbe una crisi epilettica e lo portarono all’ospedale. Guarì in fretta ma rimase impedito al braccio e alla gamba. Gli affidarono immediatamente un settore tutto suo da dirigere. Ottenne una scrivania di mogano e una segretaria che faceva le veci della sua mano. Si trasferirono nel nuovo appartamento, i bambini furono iscritti a una scuola privata e Tilde si comprò la pelliccia. La domenica uscivano a passeggio sul corso, Tilde si pavoneggiava nel visone nuovo, mentre Gino si strascicava dietro la gamba come una scopa.
E poi la carriera continuò. Ogni anno a Gino veniva un colpo che gli storpiava un braccio, un occhio, la favella, secondo il numero di gocce che la sua premurosa moglie versava sullo zuccherino.
Colpo dopo colpo, Gino Tacconi salì ai vertici dell’amministrazione aziendale.
Come ogni mattina, la signorina Elisabetta spinse la carrozzella del direttore nel suo faraonico ufficio. Gli accese un sigaro di marca e versò le pillole nel bicchiere. Il direttore strabuzzò gli occhi, mugolò un ringraziamento e inghiottì un sorso d’acqua con una compressa.
«Se non ha più bisogno di me, io vado, direttore.»
«Uuuughh…»
«Buon lavoro anche a lei, direttore.»
Il direttor Tacconi rimase solo. Aspirò alcune boccate del sigaro, lottando contro il catarro che gli intasava la laringe. Roteando gli occhi, riuscì a vedere il lato della scrivania dove erano in mostra le immagini della sua famiglia. I suoi ragazzi, ormai grandi, sorridevano fieri col cappello della laurea. Con la maturità, Tilde si era fatta, se possibile, ancora più bella. Il completo da montagna le donava nella foto presa a Cortina insieme al maestro di sci. Era veramente orgoglioso della sua famiglia.
Davvero, Gino Tacconi poteva dirsi un uomo fortunato.
Il sigaro gli si scollò dalle labbra e gli cadde in grembo. Si agitò sulla sedia quel tanto che bastava a farlo scivolare a terra, prima che gli bruciasse i pantaloni. Una lacrima, una sola, seguì il contorno del naso prima di guadagnare il mento, dove rimase a dondolarsi, indecisa.
Le sue mani non erano in grado di asciugarla.