Io seguivo spesso mio padre all'orto; coltivava, con scarso rendimento in realtà, un rettangolo di terra vicino un tratto di tangenziale, dove solevamo anche abbandonare i gattini di troppo che la nostra Briciola ci sfornava e non riuscivamo a piazzare. Crudeltà questa che non afferravo in tenera età. A me quell'orto sembrava un gran pezzo di natura selvaggia e io la natura la sentivo che mi voleva. Mio padre zappava e io guardavo i fiori, il rigagnolo d'acqua, gli uccelli, gli insetti. La sera si vedevano volare le lucciole.
L'orto serviva, oltre che per sfogare il bisogno di contadinaggine di mio padre, a consumare il pic-nic di pasquetta. Non andavamo da soli venivano anche “i compari”. La Pasqua era praticamente solo un preludio al grande pic-nic del giorno dopo, chissene importava della resurrezione di Cristo.
Mio padre tirava su dalla cantina l'occorrente: le sedie pieghevoli, i tavolini, le griglie per la carne, le cassette, di cui mi sovviene anche il colore, gialle. Si preparavano piatti, bicchieri e posate, tovaglie e tovaglioli, tutto di casa, mica roba di plastica, si facevano cassette pesantissime. Era un trasloco. Chi ci avesse veduto poteva credere che ci avessero sfrattato. Una volta portammo pure un divano, caricato sul tetto dell'auto, da lasciare lì, così mio padre si spaparanzava.
E ovviamente le libagioni. Lasagne a quattro palmenti, polpette di carne e di carciofo, niente come la polpetta di carciofo mi ricorda la Pasqua, due chili di insalata, agnello e salsicce che occupavano da sole una cassa intera, che avremmo cotto là sul fuoco vivo; poi le uova, le colombe e le bevande da tradizione.
E poi basta. Mi piacerebbe dire che erano giornate speciali in cui ne succedeva di ogni, e risate a profusione, ma no, tutto si svolgeva come in tutti i pic-nic di questo mondo. Chiacchiere, la radio, giocare a palla. Sereno, assolato, gradevole. E alla fine anche lì ero sempre sola o con mio fratello.