La via Infrascata si trovava...
- Come, si trovava? Non c'è più? L'hanno chiusa, eliminata? -
Ma no, fammi parlare.
Intorno al ‘600, quando la nobiltà spagnola iniziò ad edificare delle splendide ville sulla collina del Vomero, si rese necessario costruire una strada che collegasse il centro della città alla collina stessa. Fu così costruita una salita che avrebbe collegato la attuale zona del Museo Archeologico al Vomero. Quel tratto di strada era ripido e costeggiato da vegetazione, arbusti e campi. Per questo fu battezzata Infrascata, perché si percorreva in mezzo alle frasche.
Era anche piena di trattorie dove rifocillarsi durante il tragitto, che avevano delle frasche esposte all’esterno, quasi come insegne. Molti anni fa ha cambiato nome ed è stata intitolata a uno dei più famosi pittori napoletani del ‘600, Salvator Rosa.
La via Infrascata collegava...
- Perché, non collega più? -
Aspetta, fammi finire.
Collega sempre il centro con il rione Vomero, istituito nel 1885, ma sono mutati, nei decenni, l'architettura e il paesaggio urbanistico dello stesso. Inoltre, con il "sacco edilizio" degli anni '60 (ti dice niente LE MANI SULLA CITTA' di Francesco Rosi?) il posto è diventato tutto un gorgoglìo di strade, palazzi e traffico e, allora, addio aria salubre.
Bene, al centro di quest’arteria fondamentale di collegamento cittadino, lunga circa un chilometro e mezzo, abitavamo noi.
Vincenzo e Margherita si erano conosciuti proprio nel palazzo.
Margherita abitava nella grande casa con genitori, Adalberto e Anna.
La sorella Lucia si era sposata e si era trasferita in Liguria.
Vincenzo aveva ufficio e deposito proprio nel cortile del palazzo e allora, dal balcone, uno sguardo oggi, uno domani, si erano conosciuti e si sono sposati nel febbraio 1944.
Sorridendo nel pensare a Margherita, nata e vissuta all’Infrascata, mi è spesso venuta in mente GUAPPARIA, la canzone scritta nel 1914 da Libero Bovio e Rodolfo Falvo
Scetateve, guagliune 'e malavita,
Ca è 'ntussecosa assaje 'sta serenata!
Io songo 'o 'nnammurato 'e Margarita
Ch'è 'a femmena cchiù bella d' 'a 'Nfrascata
In quella grande casa al primo piano di un edificio d’inizio Novecento siamo nati noi.
Sì, proprio in casa!
C'era la consuetudine di partorire in casa e mi sono sempre chiesto come si potesse fare.
Si attrezzava la stanza da letto dei miei genitori, ampia e con il balcone e la finestra che affacciavano direttamente sulla strada, come sala parto. Con tanto di levatrice e panni caldi (!), come nei migliori film di quegli anni.
Chiaramente non ricordo nulla di quelle occasioni (oltretutto ero il quinto nascituro di sei), ma mi piace immaginare una folla di persone, fra nonne e vicine, che si affrettavano nella bisogna.
Pare io sia stato l'unico a essere nato un po’ mingherlino, due chili e mezzo, tanto da meritare un periodo d’incubatrice (visti i risultati, deve essere servito a farmi riprendere... peso!).
Ed anche l'unico ad avere gruppo sanguigno B+, diverso da tutti gli altri.
La casa era molto grande ma disposta "stranamente" rispetto agli standard attuali.
Saletta d'ingresso spoglia, che ci sarebbe servita qualche anno dopo per interminabili partite a pallone (col cattivo tempo) con Sergio e i due figli dei vicini di casa, nostri coetanei.
A sinistra dell'ingresso c'era la stanzetta della donna di servizio, che viveva con noi, che sarebbe stata utilizzata a dodici anni per fumare di nascosto.
Attraverso di essa si accedeva a una stanza da letto, dove dormivano la nonna e Giovanni, con finestra sulla strada (nonno Adalberto era morto da qualche anno).
Una stanza quasi misteriosa, dove mica si poteva accedere tanto liberamente!
Continuando nel percorso si arrivava al talamo nuziale, di cui sopra, dove dormivamo anch’io e Sergio.
Una stanza enorme, con armadio e mobili che resistono ancora oggi.
Ricordo, e per me era una cosa molto divertente, che sotto il letto c'era il pitale per i bisogni notturni e improvvisi dei due figli più piccoli.
I letti erano alti, senza reti ma con tavole di legno ben rigide e i materassi che ogni tanto si dovevano scucire per far ravvivare la lana, a mano.
C'era anche qualche materasso di fibra vegetale e mi sembra di ricordarlo duro e forse anche un po’ scomodo.
Un'altra porta e si arrivava nella camera di Giovanna, Marisa e Gabriella.
Non grandissima e mi chiedevo come facessero a starci, con tanto di armadio all'interno.
Era la stanza dove mi rifugiavo quando non riuscivo a dormire.
Una volta, avrò avuto undici o dodici anni, mi rifugiai lì con loro dopo la visione di un film trasmesso alla televisione: era la storia di un pianista che perdeva la mano in un incidente e questa se ne andava in giro a commettere delitti. (1)
Da paura!
Oltre questa stanza si accedeva al "lato giorno" (come dalla stanza d'ingresso, d'altro canto).
Salone per feste con stereo/radio d'epoca, per i 45 giri.
Quante feste delle mie sorelle, più grandi, insieme ai loro compagni di scuola tutti in tiro, con girocollo o giacca e cravatta, che si appollaiavano sulle sedie, da un lato, in attesa di invitare a ballare le ragazze, in attesa dall'altro.
Come nelle migliori tradizioni!
Ed io e Sergio appollaiati dietro il divano (quando non ci estromettevano dalla stanza) che ci divertivamo a prenderli in giro.
Tutto questo con la complicità di Margherita e fino all'arrivo di Vincenzo. Quando lui rincasava dal lavoro tutti fermi, senza ballare e senza stringersi.
Those were the days! E quelle erano le consuetudini culturali e sociali.
(continua)
1) Il mistero delle cinque dita (The Beast with Five Fingers, 1946) Regia di Robert Florey con Peter Lorre