IL RAPIDO DELLE 12 PER MILANO
È IN PARTENZA DAL BINARIO 9
-Partono i bastimenti…!-, anche se era un treno e altri tempi di emigrazioni. Era il 19 maggio del 1974.
Avevo appena compiuto ventidue anni e tutto sembrava…
Certo, la mia sarebbe stata un’assenza temporanea e ‘comoda’, ma per avere un lavoro avrei fatto anch’io per un po’ l’emigrante.
A tutti può capitare, nella vita, di riconoscere un periodo che ha caratterizzato (anche inconsapevolmente) il proprio percorso umano e interiore.
Per me sono stati quei dieci anni, durante i quali, in pratica, sono passato dall’infanzia alla realtà, senza accorgermene.
Dovevo avere circa dodici anni, erano gli ultimi tempi dell’Infrascata e il posto era vicino casa, un centinaio di metri.
Lo conoscevo bene perché era nei pressi della Scuola Elementare che frequentavo.
In famiglia Vincenzo e Margherita non erano bigotti; forse più indifferente lui e un po’ più abitudinaria lei.
Per questo ho il sospetto che il mio interesse fosse stato, inizialmente, rivolto al campetto di calcio che si trovava alle sue spalle.
Per tutti era la CESAREA.
La Basilica di S. M. della Pazienza alla Cesarea era classica struttura barocca, voluta da Annibale Cesareo, iniziata da Domenico Fontana nel 1602 e ultimata nel 1636; si stagliava al centro dell’Infrascata: tutta marmo e stucchi, con all’interno alcune opere di un certo interesse.
Così iniziai a frequentarla, anche per l’imminente preparazione alla Prima Comunione. Erano le prime volte che uscivo da casa per incontrare altre persone.
L’atmosfera era quella scontata di luoghi simili, infarciti di tradizioni e costumi non scalfibili (almeno fino a quel momento!).
Cominciai a frequentare quei luoghi e a incontrare la fauna più disparata (me compreso) di figli degli anni ’60, quasi tutti uguali, apparentemente.
L’impegno spirituale fu verso la Prima Comunione, a dicembre, e la Cresima, in primavera.
Padrino fu il famoso zio console a Menton, in Francia, che arrivò con la famiglia, ospitati nella nostra nuova casa.
A fronte di quest’incombenza però, la domenica mattina, come in tante parti d’Italia, dopo la cerimonia si apriva il campetto di calcio ed era un piacere sottile e intenso. Non che fossi un grande calciatore, ma mi piaceva giocare e cercavo di impegnarmi.
Non posso ricordarle tutte, ma la mia ‘storia’ di relazioni interpersonali parte da lì.
Dopo tutti questi anni, parte dell’umanità conosciuta allora fa ancora parte del mio habitat umano, dal quale non intendo prescindere.
Certo, mi s’iniziavano a presentare anche ‘concetti’ che per un ragazzo della mia età e del mio trascorso educativo potevano sembrare quantomeno estranei.
Il peccato e il pentimento erano concetti fino allora sconosciuti.
Quale peccato ‘grave’ poteva compiere un per benino come me, anche un po’ tondetto, che non diceva neanche cattive parole (il primo stronzo è arrivato a Milano) e, però, iniziava a considerare la vita come una scoperta e curiosità e passione come doveri?
Verso i quindici anni mi scoppiò il sacro fuoco del calcio. Volevo diventare calciatore a tutti i costi.
Allora mi misi a dieta forzata, evitando il primo piatto, e devo dire che riuscii a perdere ben quindici chili! Bene, ci avrei provato!
Il ruolo in squadra che mi ero dato era quello di ‘libero’ in difesa e allora, con i risparmi delle paghette settimanali, comprai divisa e scarpette.
Ebbi la possibilità di fare due provini: uno con la squadra della Bagnolese e l’altro con il mio adorato Napoli (fortunatamente, crescendo, ho perso tutte le prudèrie da tifoso).
Ricordo che, come promozione per la Licenza media, Vincenzo mi regalò l’abbonamento per seguire le partite della squadra partenopea. Era l’anno 1965/66 ed io andavo, ogni domenica mattina, allo stadio. Ero molto soddisfatto e al ritorno gli raccontavo la partita con enfasi e dovizia di particolari e lo vedevo pendere dalle mie labbra.
Sfortunatamente, non tutto andò liscio. Essendo, allora, fiducioso e ben disposto, mi feci fregare l’abbonamento dal compagno di banco, ma non potei dimostrarlo. Di conseguenza la domenica uscivo ugualmente (non avevo voluto raccontare l’accaduto a casa: non volevo aggiungere la beffa al danno e subire anche l’incazzatura di Vincenzo) e giravo per le strade per il tempo della partita.
Cercavo di informarmi ascoltando qualche radio o chiedendo ai tifosi che tornavano dallo Stadio. Così, una volta a casa, potevo riferire senza tema di smentita.
Devo ammettere che nessuno se n’è mai accorto (sono stato io a riferirlo tanti anni dopo): avevo lavorato bene!
Chiaramente, i due provini ebbero esito negativo ed io tornai a fare il “ragazzo che gioca a pallone”, senza grilli per la testa, con la gioia di Margherita, che avrebbe smesso di corrermi dietro, a casa, per costringermi a mangiare.
In quello stesso periodo ricordo il primo torneo di calcio vinto nel campetto. Ero in squadra con Franco e Rosario, ma loro sì che sapevano giocare!
Al terzo piano del palazzo c'era la sede della GIAC.
Lì ci s’incontrava per Riunioni e Catechesi, ma anche per giocare a ping pong, fatto che a me non dispiaceva.
(continua)