Le braccia iniziarono a dondolare e un istante dopo le labbra si posarono l’una sopra l’altra.
Chiusi gli occhi.
Fu un bacio breve. Ma aveva suggellato il nostro amore. O almeno riconosciuto.
Le corse sulle nostre biciclette sgangherate, nella discesa che portava ai piedi della scogliera, erano memorabili.
La sfida a chi arrivava ultimo era ogni volta lanciata. Il pegno da pagare andava sempre a finire nella solita, effervescente, travolgente maniera: baci appassionati.
Quando percorrevo quella discesa con i miei capelli rossi e ricci toccati dal vento e le gambe in aria non appoggiate ai pedali, sembrava fosse una felice salita verso il cielo e il sole, dove il pedalare fosse superfluo e vincere ancora meno.
Quando quel giorno mi prese la mano e solo con lo sguardo mi convinse a seguirlo in quel prato, sembrava che i fiori ci facessero spazio per passare e gli stessi gabbiani si allontanassero per riguardo.
Alla vecchia quercia di Evon conoscemmo i nostri corpi con sorprendente naturalezza.
Fu veramente magico.
Pensai di essere la donna più felice del mondo e di possedere il tesoro più grande al mondo, come neanche un sultano avesse mai potuto avere.
I miei progetti per il futuro con quel ragazzo stavano maturando giorno dopo giorno, vedevo già una casa tutta nostra, piena di ragazzini urlanti che si nascondevano dietro la mia gonna o tra le gambe del papà.
Vedevo la mia mamma finalmente divenire nonna e far schiattare di invidia tutte le comari del paese, anche se non lo penso veramente, ma forse un pochino sì.
Ma ero ancora troppo giovane. Non sapevo che la vita mi avrebbe messo di fronte ad una sfida che dovevo sostenere.
L’estate stava ormai volgendo al termine e Connor quel giorno mi disse che sarebbe dovuto partire per Dublino. Suo padre aveva bisogno di lui per circa una settimana.
Io non ne fui certo felice, il sol pensiero di separarmi da lui mi faceva venire la neve in pancia. Mio malgrado capii la situazione.
Ci salutammo quella mattina di fine agosto, quando il sole non aveva fatto ancora capolino da dietro la linea dell’orizzonte. Il vento era ancora fresco, ma sentivo il calore del suo corpo attraverso la giacca che mi tranquillizzò.
Ci fu un susseguirsi di telefonate giornaliere. Nel pomeriggio tardo correvo al pub di John, l’unico che aveva il telefono pubblico. Lì le parole e le promesse venivano abbondantemente profuse.
Precipitai nello sconforto quando quel giovedì Connor mi disse, abbassando la voce, quasi vergognandosene, che la sua permanenza a Dublino si sarebbe prolungata. Suo padre aveva deciso che lui si sarebbe fermato da sua sorella e avrebbe frequentato lì l’anno scolastico. Questa scelta non fu motivata e fu accettata malvolentieri da Connor.
Mi si raggelò il sangue. Quando l’avrei rivisto? Quando avrei ancora potuto abbracciarlo? Quando avrei potuto posare le mie labbra sulla sue?
Mia madre mi vide tornare a casa e capì subito. Mi avvolse nel suo abbraccio e confortandomi mi disse solo poche parole che riaccesero la speranza.
“Vedi Meredith, io ho capito l’importanza di un amore perso quando papà è stato chiamato dal signore. Quindi dico a te: combatti, non mollare. Vuoi veramente bene a questo ragazzo? Allora parlagli”.
La mattina dopo presi la corriera per Dublino, quella delle sei. Solo pochi viaggiatori, ma se erano come me, con un tale carico di speranza l’autobus si era già riempito.
Arrivai sotto casa sua.
Non ebbi la forza di suonare il campanello.
Attesi un po’, appena distante dalla casa. Sapevo che doveva uscire prima o poi.
Eccolo.
Feci per avvicinarmi, ma una macchina sbucò all’improvviso fermandosi davanti a lui.
Una ragazza della sua età si avvicinò a lui e lo baciò. Lui salì e partirono insieme.
Lo sgretolarsi di una montagna avrebbe causato meno danni di ciò che quella scena aveva provocato nella mia anima.
La mia mente faceva a cazzotti col mio cuore, c’era ancora una porticina aperta per la speranza?
Girovagai per la città come inebetita. Molte ore dopo mi ritrovai davanti a casa sua, come se avessi percorso un cerchio maledetto che mi aveva riportato dove non sarei mai voluta tornare.
Una voce mi chiamò.
-Meredith sei tu? Cosa fai qui, potevi avvertirmi-.
Mi voltai con le poche forze che mi erano rimaste. Mi sentivo triste e ferita e gli lanciai uno sguardo talmente carico di odio che ne rimasi sorpresa anch’ io.
Connor capì al volo.
-Sì, è vero, avrei dovuto parlartene. Lei si chiama Jenny.-
-Taci, sta' zitto, non voglio sapere il suo nome. Voglio solo sapere il perché. Perché mi fai questo? Perché calpesti il mio amore? Perché ho visto in te un angelo e trovo invece un maligno? Addio Connor-.
Il ragazzo invano cercò di stringerle il braccio, un ceffone incontrò il suo viso.
Ripresi la corriera.
Questa volta il viso malinconico incollato al vetro era il mio.
Scesi al crocevia, ma non mi diressi subito a casa, presi la discesa che portava alla scogliera. Volevo ancora una volta vedere i luoghi che avevano fatto di me una donna.
Anche il mare sembrava rabbioso tanto forte si rifrangevano le onde sugli scogli.
Mi girai come se fossi chiamata.
Alle mie spalle la scogliera mi guardava dall’alto del suo essere.
"Sì", pensai.
"Per amore".
Sì, per lui l’avrei scalata a mani nude.