Stavo partendo.
Non sapendo neanche io l’esatta destinazione.
Avevo messo ben poche cose dentro la borsa.
Una di quelle borse profonde e cilindriche, con corde che tiri per chiuderle.
Le usano i marinai quando si imbarcano sui mercantili.
Se si va in qualsiasi porto le si può notare.
Qualche boxer, qualche maglietta, calzini e il mio portafortuna.
Quello lo portavo sempre con me.
Mi accompagnava dovunque andassi.
Una specie di Totem peruviano, avuto in regalo da mia sorella maggiore.
Tutto nero, con una faccia austera ma che infondeva un coraggio tribale.
Fin da ragazzo partivo sempre così d’impeto, senza ragionare molto.
Come un richiamo di una voce da lontano.
Questa volta avevo la sensazione di conoscere già la mia destinazione.
Arrivai in stazione.
Davanti alla biglietteria ancora inebetito.
Per magia dalle mie labbra venne fuori un nome.
Arles.
Sul perché Arles non ho argomentazioni a riguardo.
Penso che non tutto si può spiegare nella vita.
Questa è una di quelle volte.
Quelle poche lettere sillabate davanti al viso del vecchio bigliettaio vennero fuori una dietro l’altra, come lo sono i vagoni che formano un treno.
Quel treno che mi avrebbe portato in quella cittadina, che per me non aveva alcun significato, nè importanza alcuna.
Il viaggio non fu lungo.
Avevo, durante il percorso, anche attaccato bottone con una signora di mezza età e ne avevo apprezzato la cultura stupenda.
Ne rimasi davvero affascinato.
Una voce gracchiante pronunciò il nome della cittadina.
Ci salutammo.
Scesi per primo.
Mi incamminai lungo il corso principale spinto da forze estranee.
I reperti romani erano ovunque.
Sembrava di vivere un vero e proprio deja Vù.
Era una cittadina che poteva essere confusa con Roma, certo, in dimensioni ridotte, ma comunque la città eterna.
La testa mi doleva.
Era insolito quel dolore.
Non era mia consuetudine provare dolore simile.
Da lontano la vidi.
E man mano mi avvicinavo sembrava che la testa mi scoppiasse.
Quando ci giunsi davanti, mi bloccai come si fa nell’ammirare un dipinto di Van Gogh, che in quei luoghi aveva soggiornato.
Era una giostra.
Ma non qualunque.
La fattura di alto livello.
Preponderante il legno e i suoi intarsi opera di abili falegnami.
I colori erano stati dati con tinte pastello.
Invidiavo quei bambini che guardavano con occhio puro la sua bellezza.
Su di essa cavallini bianchi, candidi, volteggiavano nell’aria e le loro zampe rivolte al cielo mostravano fieri il loro portamento.
Chiunque li avesse cavalcati si sarebbe sentito il più importante tra i cavalieri.
Cavalieri di tavole rotonde in cerca di donzelle da salvare, cowboy in cerca di praterie da conquistare o indiani da combattere, cavalieri erranti con fedeli servi al seguito in cerca di draghi o mulini a vento da sfidare.
Un intero mondo di fantasia legato a questo.
I pochi bambini che avevano in quel momento montato quei cavalli, con i capelli spettinati dal leggero vento che soffiava, sembravano dei prescelti.
Cinque condottieri ardimentosi.
Cinque bambini che al termine del giro sarebbero diventati uomini.
Cinque fieri cuori che assaporavano la magia della vita.
Il mio mal di testa stava passando.
Quello che non capivo e che cosa o chi mi aveva portato fin lì.
Ma lentamente tutto mi stava divenendo più chiaro.
Il cuore era l’artefice.
Quel cuore lindo che solo i bambini possiedono.
Un momento di riflessione nel percorso della mia vita, che sento mi è stato voluto regalare.
La Giostra strumento magico in questo cammino.
Sorridevi quando salivi su di essa da bambino.
Sorridevi quando scendevi da essa da adulto.
Sia io bambino, sia io padre.