Le campagne intorno erano davvero belle, tutte molto curate, e i cavalli inglesi da traino con le criniere fluenti sembravano anche loro far parte di quella effervescenza giovanile.
L’ingresso in città ci sembrò trionfale, come se dovessimo ricevere le chiavi della città da qualsivoglia autorità.
Nessuno ci accolse. Ma le vibrazioni che emanava la città erano percepite.
La multirazzialità era in quel paese presente da tempo, ma pur essendone a conoscenza abituarsi non fu immediato. Indiani con tuniche e turbanti colorati, neri con capelli tutti lavorati a mo’ di treccina, inglesi con bombetta impettiti con sguardo fiero e naso all’insù a scrutare il cielo... era un bell’impatto.
Nel quartiere di SOHO uno come me era visto come un marziano. La mia estrazione borghese stonava un ciancinino, ma ero molto motivato e non badai al resto.
Affittammo una piccola stanza nel quartiere. Nota dolente fu la pulizia della stanza, temo fosse avvenuta ai tempi di Churcill.
Ma adesso la smetto.
La sera stessa uscimmo ed entrammo in un locale. Io, Silvie e l’amata Gibson.
Si chiamava Jazz on Live. Si scendeva da una scala angusta e giù per 30 scalini lisi.
Arrivati alla fine un omaccione nero ci chiese: -Ticket please -
Entrammo.
Luci basse, bancone di legno con una sfilza di distributori di birra da far invidia ad Amilcare, che poteva mettere in campo solo la mitica “Peroni”.
Al suo interno la clientela era multietnica. I musicisti tutti di colore.
Partì l’assolo di sax soprano e le mie braccia mostrarono la classica “pelle d’oca”. Che figuraccia.
Si unirono gli altri strumenti: contrabbasso, batteria, chitarra. I pezzi prendevano sempre più corpo. Silvie era anch’essa rapita dall’energia che sprigionavano e non si trattenne.
Disse: - Devo andare -
Si diresse verso il piccolo ufficio con la scritta “Property” ed entrò.
Pochi minuti dopo venne fuori.
Cosa disse mai a quell’uomo non lo so ancora oggi, l’unica cosa certa e che la vidi sul palco con loro. Seduta su una sedia e imbracciando la sua chitarra eseguì un pezzo scritto anni prima.
Ricordo quel momento come se fosse oggi. La magia che si creò intorno a quella minuta francesina fu tale che tutti si alzarono in piedi in una standing ovation.
Frequentammo il locale ancora per diverso tempo, ma qualcosa stava per cambiare.
La nostra permanenza in Inghilterra si era prolungata più del dovuto, dovevamo fare i conti anche con le spese che stavamo sostenendo. Il credito con la padrona della stanza era ormai cessato.
Provammo subito a cercar lavoro, ma le paghe erano veramente da fame.
Chiedere soldi alle famiglie?
Mai!
Passarono ancora diversi giorni, ormai eravamo alle strette.
Ci consultammo.
La decisione presa fu veramente sofferta: bisognava vendere la chitarra. L’unico bene per racimolare soldi e rientrare in Italia.
La demmo in pegno a Saurus, il proprietario del club che avevamo frequentato fino a poco tempo prima, con la sola speranza di poterla riprendere da lì a poco. Fu molto comprensivo e ci diede anche più del suo valore.
Ripartimmo.
Milano, un giorno qualsiasi dei primi anni ’80.
Ero immerso nel traffico cittadino al rientro dal lavoro. Abitavo molto distante e la mia permanenza in macchina mi portava a girovagare con la mente.
Radio Popolare dava sempre musica molto bella e talune volte venivo proiettato ai tempi dei miei diciotto anni.
Quel giorno, subito dopo parcheggiato la macchina, aprii la cassetta della posta. Non era mia consuetudine farlo.l, voi che abitavo solo, vuoi che la mia pigrizia era tanta.
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Una lettera!! .
Non mi scriveva mai nessuno.
Sul fronte “ Al sig.Franchetti”.
Sul retro una S.
Aprii con trepidazione una volta entrato in casa. Mi sedetti.
- Ciao.
Non avresti mai immaginato che potessi essere io.
Se getterai questa lettera via capirò, ma fammi prima spiegare. Poi deciderai.
Abbiamo passato momenti indimenticabili tra di noi. L’amore era veramente grande, ma da allora sono passati oltre 12 anni.
Non ci siamo mai più sentiti. La vita ha voluto cosi.
Ma ricorda, dobbiamo compiere “un viaggio” -
Domandai a me stesso cosa avesse in mente. Avevamo sofferto entrambi della separazione. Certo, il tempo aveva lenito le ferite, ma era altrettanto vero che il solo fatto che ero senza una compagna forse voleva significare qualcosa.
Accettai la richiesta.
Ci incontrammo a Calais dove la magia ebbe inizio. Quando ci vedemmo non ci abbracciamo subito. Ci scrutammo.
Non eravamo più giovanissimi e vestiti borghesi avevano preso posto di jeans e tuniche con fiori, ma la magia stava per riformarsi.
- Dammi la mano -, disse lei.
Traghettammo e stemmo tutto il tempo abbracciati in silenzio. La nave era semivuota ma sentivamo ancora le urla dei ragazzi rivolte ai gabbiani.
Ci fermammo davanti ad un negozio in Empty Road.
La Gibson era lì.
Ancora luccicante.
Sembrava attenderci.
Quell’incontro sembrava fissato nel tempo.
Dimenticavo.
Il mio nome è Francesco. Il mio amore si chiama Silvie
E la chitarra tornò con noi.